L’impegno silenzioso dei sacerdoti in piena pandemia: i preti in corsia

Gli occhiali protettivi sugli occhi, la mascherina chirurgica celeste a protezione della bocca e del naso. Solamente quando la tuta sanitaria viene rimossa, diventa possibile riconoscere don Marco Galante e distinguerlo da un qualsiasi medico o infermiere del reparto Covid. Perché lui, sotto la montagna di dispositivi di protezione, porta con orgoglio il colletto bianco.

 


Per oltre un mese, don Marco ha trascorso le sue giornate nell’ospedale “Madre Teresa di Calcutta” di Monselice-Schiavonia, il primo Covid Hospital del Veneto e d’Italia. Anche chi non è del luogo, almeno una volta, ne avrà sentito parlare in radio o in televisione: qui, infatti, il 21 febbraio 2020, moriva la vittima numero uno del Coronavirus.

 

Lui, come centinaia di altri sacerdoti, è uno dei preti in corsia rimasti al fianco dei malati e dei sofferenti quando il nostro Paese iniziava la terribile conta dei contagiati e il Coronavirus si apprestava a diventare il lessema più utilizzato al mondo.

 

L’esperienza di don Marco Galante nel primo Covid Hospital d’Italia

 

Mentre racconta la sua esperienza, don Marco ha le lenti degli occhiali appannate dal respiro nella mascherina e la voce tranquilla ma profonda. Le pause sono ben calibrate, l’accuratezza con cui seleziona le parole da dire (e da non dire) bastano a comprendere cosa ha lasciato nel cuore vivere tra i corridoi dell’ospedale in quei giorni senza certezze.

 

È stata un’esperienza dura, impegnativa. A volte subentra anche un senso di impotenza, come quando un paziente ti chiede un po’ d’aria e non sai come aiutarlo”, ricorda. Senza farmaci o strumenti medicali, aiutare quanti combattevano contro un virus spietato ha richiesto una vocazione speciale.

 

Per i preti in corsia come don Marco, esserci ha significato soprattutto donare conforto con la parola di Dio. La loro missione? Ascoltare la sofferenza, a volte persino senza fiato, dei pazienti costretti sul letto d’ospedale e consolarla con la fede.

 

Come mai successo prima, infatti, il Coronavirus ha creato un vuoto attorno ai malati: soli, e senza le visite dei parenti, gli sfortunati sono stati costretti a combattere il male fisico e lo sconforto spirituale.

 

don Marco ha provato ad essere una spalla su cui piangere, la mano da stringere e con il suo sguardo a regalare il calore di un abbraccio purtroppo solamente virtuale. Persino i non credenti, in quei drammatici momenti, hanno trovato nella lettura del Vangelo istanti di consolazione.

 

Don Alberto Debbi: il pneumologo-sacerdote di Sassuolo

 

Ugualmente significativa l’opera di umanità di don Alberto Debbi, parroco reggiano di Correggio, tornato, seppur temporaneamente, ad esercitare la professione di pneumologo nell’ospedale di Sassuolo.

 

L’annuncio, il 44enne laureato in medicina, l’aveva affidato ad un post sul proprio profilo Facebook nei primi mesi della pandemia: “Vi chiedo una preghiera per me. Da mercoledì ricomincerò (temporaneamente) il mio mestiere di medico all’Ospedale di Sassuolo, in Pneumologia, centro COVID-19. […] Ringrazio il Vescovo e don Sergio che mi danno la possibilità di farlo. Anche se “un po’ più distante” rimarrò raggiungibile via cellulare e quant’altro… Continuerò a pregare e a celebrare la Messa per tutti voi. Ora, come mi ha detto un’amica, il mio altare diventa il letto del malato. Un abbraccio a tutti! Coraggio!”.

 

Per lui, la vicinanza ai malati è stata anche più che solamente spirituale. Fino a quando la situazione lo ha richiesto, il suo impegno pastorale è stato coniugato con l’attività di medico. Una scelta apprezzata dall’intera realtà ospedaliera, che lo accolto con entusiasmo e gratitudine. “I miei colleghi mi hanno aiutato a rientrare e affrontare una patologia che tutti abbiamo imparato a trattare sul campo”, le sue parole rilasciate in un’intervista poco dopo esser tornato a vestire camice e mascherina.

 

Rispetto al passato, però, don Alberto aveva un’arma in più per curare i malati: la parola. Ho provato a portare il messaggio e la vicinanza del Signore”. Perché essere un sacerdote in corsia, in piena pandemia, è (stato) esattamente questo: consolare con la preghiera il dolore e lasciare che la paura non superi la fede.