Dio è morto (terza puntata)

«Su cos’è che stavi meditando, Dolly? Adesso lasciamo da parte tutti gli scherzi. Aprici le porte della tua percezione, verso la quale tutti nutriamo profondo rispetto. Non è vero ragazzi?»

Il coro fu unanime e sottoscritto da un ulteriore brindisi alla memoria del già tanto compianto cantante dei Black Sabbath dell’epoca Heaven and Hell.


Ronnie James Dio con gli Heaven & Hell
Ronnie James Dio con gli Heaven & Hell

Eccolo pronto. Il drappello dei senza dio. E ancor di più da quel momento – dei senza Dio – pronto a pendere dalle labbra di un’affascinante fanciulla capace d’istruirli a venir fuori dal Maelström di una vita che s’apprestava a divenire più grigia di quanto non lo era stata fino a quel momento.

Dolly – Giada Simposio per l’anagrafe – era un bel po’ sotto la trentina, ma non per questo la si poteva considerare meno interessante di una qualsivoglia maliarda in circolazione nell’anno del Signore duemiladieci. Quale signore voglia intendere sarete voi stessi a stabilirlo nel prosieguo della lettura di questo umile documento. Unico elemento dotto, in mezzo a quella massa di caproni dedita al riciclaggio delle proprie squallide esistenze, solo da poco aveva rinfoltito la collezione dei suoi titoli, con una doppia Laurea Magistrale in Filologia Moderna e Antica. Non chiedetemi per carità di spiegarvi cosa significhi, perché non rientra nelle mie competenze di narratore di più che modeste origini. Vi basti solo sapere che la Simposio a quell’età poteva vantare un’esperienza non da poco nella traduzione degli antichi trattati di demonologia come Piccola Chiave di Salomone e Il Grande Grimorio. Le accuse di qualche anno prima, che la volevano implicata nell’omicidio del suo ex-ragazzo, erano cadute perché ritenuta estranea ai fatti. Sul cadavere di lui la scientifica non era stata in grado di rilevare alcuna traccia che potesse portarla direttamente al banco degli accusati. Del resto ci aveva pensato il fuoco a purificare dell’immonda umana pestilenza il corpo del suo accompagnatore di quei tempi. Qualcuno s’era prodigato nello strappargli i denti, poi le unghie, la lingua, il cazzo, gli intestini e per ultimo il cuore – come in un macabro rituale d’espiazione da qualche immane colpa – prima di avvolgerlo in una volgare busta dell’immondizia, cospargerlo di benzina e lasciare alle fiamme il compito di depurarlo del suo inutile trascorso. Al funerale – i genitori di lui – avevano di qualche modo preso a insultarla pubblicamente, dandole la colpa dell’accaduto. Che fosse sinonimo di colpevolezza l’aridità di quei suoi begli occhi di cerbiatta? Il pianto deve scaturire spontaneamente, non essere indotto. Evidentemente la Simposio doveva ritenere inutile l’esternazione del dolore. L’Amore fa presto a sfiorire quando non ci si rende conto che sono proprio le piccole attenzioni del quotidiano a irrigarne le radici. Quell’emerito beota – nel reiteramento d’un egoismo da egocentrico psicotico – aveva di qualche maniera firmato la sua condanna a morte nel momento in cui contribuiva a far spegnere nel corpo della giovane, la vampa di ogni interesse verso di lui. So già quello che vi starete chiedendo, maledetti impiccioni. Se a quel tavolo sedeva la persona che era invece riuscita a farla sorridere di nuovo. Ebbene sì. Starà a voi riconoscerla, perché non spetta certo a me rivelarne l’identità.

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