Alla ricerca della bellezza sulle strade del Marocco

Riceviamo dallo scrittore e poeta ponzese Antonio De Luca e con piacere pubblichiamo:

VERSO IL DESERTO


Prima che un pensiero cambi il mondo deve cambiare noi stessi.

È un concetto che espresse Albert Camus.

A 18 anni questa filosofia la feci mia. Ero preso dal pensiero del Camus anarchico. Albert Camus è il genio.

La vita da allora l’ho fatta diventare una rivoluzione permanente. La rivolta dell’uomo camusiano.

La rivoluzione: deve essere permanente per essere rivoluzione.

Ossia. Rivolta continua affinché un cambiamento avvenga. Si manifesta.

L’uomo in Rivolta dice di no, ma non rifiuta.

La Rivolta è profondamente positiva, lotta per l’ Umanità. Sempre scriveva il genio di Algeri.

Un unico fine il mio: la libertà dell’uomo. La sua dignità. L’esaltazione della parola. La strada per la liberazione.

Un altro modo di vivere è possibile.

Il rifiuto di una vita banale massificante che uccide ogni desiderio ogni pensiero. Ogni virtù.

Un desiderio di vita che rifiuta il consumismo e ogni banalità.

La società così fortemente capitalistica e totalitaria che ogni pensiero ingloba senza via di scampo.

Questi falsi-miti del nostro tempo lentamente sottraggono alla vita umana ogni valore. Le idee plasmanti fuori da ogni valore rendono il pensiero merce da vendere. L’intelligenza e la conoscenza al solo servizio del mito-denaro.

Il poeta abita da solo mi dissero.

Mi costruii qualcosa lontano dal mondo, dalla gente.

Mi sono inventato il mestiere di ricercare la bellezza.

Quella fuori dall’attualità . Dalla dialettica dominante che sfregia ogni poetica.

Qualcuno deve avermi suggerito questo viaggio che sto per intraprendere.

La ricchezza naturale e umana dei paesi del Maghreb.

O una favola ascoltata da bambino in casa.

Un viaggio nel deserto. Rifugio ai margini della cosiddetta civiltà. Bisogno di comprendere il senso di appartenenza.

L’individuo e lo spazio ideale per vivere la solitudine.

Lontano e lontano. Verso nessuno.

Una porta verso il mondo perduto. Arcaico e primitivo.

Alle radici dell’uomo.

Un viaggio lungo e faticoso.

La fatica che fa stare bene.

La fatica che serve.

Sono in un piccolo villaggio sui monti dell’Atlante del Marocco. A una quota di circa 3000 metri.

Fa freddo ma ci sta il sole che riscalda molto.

Mangiamo all’aperto in un cortile affacciato sopra una grande vallata.

Carne di agnello sulle braci.

Sto a scrivere di questo viaggio.

È un ristoro per viaggiatori e gente comune in direzione deserto e oltre.

Da qui puoi arrivare dappertutto. Attraversare il Sahara e arrivare in ogni luogo dell’Africa. Da qui si arriva sull’oceano.

Ci sta chi ritorna da un viaggio. Chi ha appena cominciato il lungo cammino.

Le persone si incontrano. Si guardano da eroi. Si scambiano consigli ed esperienze. Fanno amicizia.

Come in un campo base ai piedi dell’Himalaya, in preparazione delle grandi scalate.

Siamo partiti alle ore 8 da Essaouira. Città simbolo di pluralismo culturale sull’Atlantico. Città che ignora le frontiere che separano culture lontane e diverse. Una Marsiglia o Lisbona in miniatura. Luoghi dove sembra che li abbiamo da sempre conosciuti. Solo già camminare per le loro strade ci riportano a ricordi vissuti. Un profondo richiamo a voci amate. Hanno una energia interiore. Che rende la gioia e porta alla stanchezza necessaria.

Arriveremo nel tardi pomeriggio di domani alle Erg Chebbi.

A circa 60 km dalla città di Erfoud. Ai confini con l’Algeria. In pieno deserto.

Erg Chebbi è la meta di questo viaggio. Saremo ospiti in una tenda berbera.

Vagheremo tra dune e orizzonti di dune.

Prima un deserto pietroso poi la sabbia sconfinata.

Tra viaggiatori e nomadi.

Tra cammelli e carovane provenienti dal Mali.

Il deserto come l’oceano tumultuoso. Ammutolisce e toglie il fiato.

Un pensiero di estetica romantica.

Un viaggio oltre la porta astratta è sempre necessario. È liberatorio. Purificatore.

Verifica lo stato di esistere.

Vivremo con una famiglia berbera. Le loro abitudini i loro canti le loro storie.

Mangeremo con loro, dormiremo con loro. Cammineremo con loro.

Fuori dalle rotte turistiche, ormai sempre più di moda.

Viaggeremo sostando tra villaggi, oasi e città. Fino a Merzouga.

Poi proseguiamo con cammello e a piedi.

Questa sera alloggeremo a Dades lungo questa rotta.

Questi pochi viaggiatori che incontriamo vengono da tutto il mondo.

Tutti ben equipaggiati per sopportare il freddo di questi monti.

E soprattutto l’escursione termica nel deserto.

Siamo a gennaio. È pieno inverno.

Mi dicono che quest’anno l’inverno è particolarmente freddo.

Anche qui si sente il cambiamento climatico.

Di notte ci saranno anche meno 15.

Inizio a capire che forse ho sottovalutato alcune questioni organizzative.

Non ho un abbigliamento adeguato per questo viaggio.

Ma sono estasiato e ammutolito nei pensieri dall’incontro con questi popoli. Pronto a soffrire.

In questi villaggi dallo spettacolo che coinvolge ogni pensiero è poesia.

Tutto di questa regione attrae stupisce ammutolisce. Pronto a sfidare fatiche e clima.

Mi piace vedere come vivono gli altri.

Paesaggi di alta montagna, tra vallate fiumi e città fortificate.

L’agricoltura è nelle oasi e nel fondo delle valli. Dove l’acqua confluisce.

E grandi greggi di pecore e capre su per le montagne. Qualche mucca e cavallo e mulo. Asini tanti.

Le montagne sono di un colore rosso scuro, marrone o ocra. Variano le tonalità lungo il viaggio.

Arriviamo alla kasbah di Ouarzazate per poi dirigerci verso Ait-Ben-Haddou.

Arrivati qui mi sento subito preso da uno stato di stordimento totale. Di meraviglia.

È da anni che desideravo venire ad Ait-Ben-Haddou.

Ci venne Pier Paolo Pasolini a girare Edipo Re.

Fascino e sbigottimento da tanta bellezza.

Silenzio e suoni di lontananza.

Tutto garbatamente in una dimensione metafisica.

E primitiva la mente mi sorprende e il corpo viene preso da questo stato delle cose.

Rimango tutto il tempo come se non volessi più partire da qui.

Sono sospeso in un’altra dimensione, finora sconosciuta.

La guida parla abbastanza italiano. Ma non gli chiedo il perché.

Il paesaggio sembra un quadro del puntinismo francese.

Sono preso da uno stordimento di meraviglia.

Pensieri si sospendono in una memoria che si lascia andare.

Qui mi cade ogni cosiddetta civiltà.

Il mondo è altro.

La ragione smettesse di teorizzare e mi lasciasse il cuore in pace.

Un cuore che vive e sogna. Un cuore primitivo. Un cuore di fanciullo. Pascoliano.

Avere un cuore da bambino non è una vergogna. Ma un onore. È la nobiltà dei bambini. Lessi in uno scritto di Ernest Hemingway. Sopra un giornale dal dentista nella città di Napoli, mentre aspettavo il mio turno.

Le case sono fatte di mattoni, di paglia e fango essiccati al sole.

I tetti sono fatti di canne con sopra un impasto di argilla e sabbia di fiume.

I muri tutti hanno una resistenza massima di 20 anni e devono continuamente essere sistemati con nuovi mattoni.

Le case nei piani sottostanti sono adibite per gli animali.

Le stanze hanno arredamenti essenziali.

Anzi tranne tappeti su materassi, non ho visto niente che qualche utensile per cucinare.

Alcune buste appese ai muri. Così le pentole essenziali.

Ai muri le foto di bambini con attori hollywoodiani passati di qui.

Ad Ait-Ben-Haddou ormai non ci vive più nessuno.

Le case sono su più piani e seguono la morfologia del luogo.

Il villaggio è un saliscendi di vicoli.

I tappeti berberi stanno ad arredare qualche muro esterno. Sono in vendita.

La città si raggiunge adesso attraverso un ponticello. Prima si guadava un torrente.

Giù ai piedi del villaggio ci stanno stanze adibite a vendita di oggetti.

Tutti rigorosamente di cultura berbera.

Alcuni sono veri antiquari. Molti di questi oggetti sono serviti alle sceneggiature di film.

Qui ne hanno girato tanti di film.

Infatti a qualche chilometro da qui, a Ouarzazate ci sta un piccolo aeroporto per portarci Hollywood.

Sono entrato in una casa e ho conosciuto gli ultimi berberi che abitano nella città.

Probabilmente mantenuti in vita dall’Unesco e dai viaggiatori di passaggio.

Gli altri stanno nella città nuova oltre il fiume.

Il fiume in estate è un ruscello ma in inverno si fa più copioso.

Lo noto dagli argini.

Ait Ben Haddou non ha luce elettrica ma qualche pannello solare. Ora fa parte dell’UNESCO.

La città nuova invece ha tutti i comfort. Anche lussuosi hotel con piscina.

Servono a ospitare i divi del cinema.

Tra le guide circola un foglio ben fatto, con tutti i film girati qui e le loro location.

Ne sono circa una ventina.

Mi affascina il fiume con le palme ai margini. Ma più che fiume è un torrente.

Noto che alcuni viaggiatori sono stesi sulla sabbia ai lati del torrente.

Tranne gli uccelli e l’acqua che scorre, non si sentono rumori di nessun genere.

Tutto è ovattato in un religioso silenzio.

Un silenzio primitivo.

Un silenzio di bellezza in cui mi immergo ed è dolce vivere.

È il silenzio della creazione.

Tutto mi è lontano e remoto.

Sto in una serenità pessoana di apatia.

Ho fatto visita ad un antiquario e presa una borsa da cammelliere in ottimo stato, è affascinante.

Dice che è servita a un cavaliere nel film Alexander. Gli voglio credere.

Vado al fiume. Non è ancora il tramonto. Ma una luce calda illumina ogni cosa.

Il colore delle pietre e dell’acqua sembrano messi da pittori impressionisti.

La luce penetra tra le palme entra sugli orti.

La terra scaldata dal sole esala i suoi profumi. Le palme emanano i loro aromi.

Così come i campi di menta. E le coltivazioni di rose e gelsomino.

Un asino pascola libero si accorge di me.

Viene incontro.

Vado al guado del fiume. Sento belare giovani agnelli. E da un orto non lontano sento l’usignolo e le rondini cinguettare nel cielo. L’asino continua a seguirmi, incontro uomini solitari che passeggiano.

Mi siedo sopra un tronco di tamerice. I tronchi delle tamerici essiccati al sole servono da travi per i tetti. Poi mi sdraio sul greto sabbioso.

L’asino si ferma a pochi metri da me. Rimaniamo insieme tutto il tempo.

Apro Steinbeck ma lo richiudo subito.

Non sta bene in questo momento un americano qui. Meglio stare in silenzio meglio non pensare. Meglio che la mente sia in ascolto. Non ho voglia di parlare con nessuno.

Le persona a cui vorrei chiamare, per condividere questo silenzio sono Fernando Pessoa e Gabriel Garcia Marquez. Ma anche tutti i poeti del mondo.

Si fa tardi, ho appuntamento con l’autista.

Bisogna riprendere il viaggio verso Dades.

Ritorno alla città nuova, noto una certa vitalità ma bisogna andare via.

Sento che qui bisogna ritornare allora lascio le ombre. Mi obbligheranno a tornare. Come ho fatto ad Asilah a nord di Rabat.

È notte quando arriviamo a Boumalne Dades.

Fa molto freddo, noto che ci sta del ghiaccio ai margini della strada. Ma anche nei giardini dell’albergo. Il freddo è insopportabile.

Il termometro mi indica – 8.

L’albergo è ottimo e riscaldato. Bellissima architettura e buon gusto.

La notte è stata rilassante.

Qui ho una buona connessione. Col tablet mi leggo qualche poesia di Paul Eluard.

Un poeta francese, uno dei padri del surrealismo.

Eluard mi piace moltissimo. Lo leggo da molti anni.

Ci sono poesie che tengo a mente.

Sono compagne di viaggio. Stanno nel pensiero, fanno compagnia.

Rassicurano.

Eccitano il cuore e la mente. L’anima è meno sola.

Di lui potrei dire quello che disse José Saramago di Luis de Camoes:

mio amico, mio stupore, mio sodale…. hai perso la vita per colpa dei tuoi versi?

Il surrealismo di Eluard è il realismo mio di oggi.

Io ed Eluard abbiamo strade simili. Ci incontriamo spesso.

Ho bisogno di lui.

La sua forza espressiva trascina, coinvolge, tracima.

L’amore e le sue contraddizioni sono espresse con primitiva bellezza.

Mi rattrista che non mi sono portato con me il suo libro Poesia ininterrotta.

Versi che mi appartengono. Materia della mia esistenza.

Poi all’alba mi sono svegliato e ho scritto. Abbiamo mangiato molto bene ieri sera.

E bevuto due bottiglie di vino del Marocco.

Eravamo in pochissimi. Questa non è una rotta molto battuta.

È una strada per viaggiatori d’avventura.

Il freddo aumenta. È impossibile stare fuori. L’albergo è accogliente.

Al mattino sulla montagna di fronte vedo grandi lastre di ghiaccio.

Metto musica del mio ipod. È Mia Martini, canta Valsinha.

Il freddo è insopportabile. Soffro. Metto due paia di calze. Mi lascio il pigiama sotto i pantaloni e indosso due maglioni. E va tutto bene.

Riprendiamo il viaggio. Prossima tappa sarà Errachidia.

Pranzo fuori città in un campo tenuto sempre da berberi. Ora il freddo è finito.

Ci sta il sole, sto in camicia.

Poi proseguiamo per Tinghir.

Una guida mi accompagna in un’oasi e lì incontro dei vecchi contadini.

Ho un appuntamento per farmi raccontare qualche storia.

Attraversare i monti dell’Atlante è un viaggio oltre ogni aspettativa. L’avventura è dietro l’angolo.

La meraviglia è continua. Il passo è stato a 3600 metri.

Ora scendiamo dai monti verso il deserto. Le temperature si alzano.

La strada è in continuo miglioramento. Ditte francesi provvedono ad allargarla e a renderla più veloce.

A deviare versanti per superare strette curve.

I lavori vedo che sono di alta ingegneria.

Mi dicono che bisogna dimezzare i tempi di attraversamento.

È questa l’unica strada che mette in comunicazione l’Africa centrale e il Marocco Atlantico.

È una strada importantissima per le popolazioni del nord e medio Atlante.

Questa è la rotta che va dal deserto al mare in questa regione.

Una via di comunicazione fondamentale per i popoli di questa parte dell’Africa e non solo. I monti dell’Atlante hanno una cospicua densità.

Si smembrano interi versanti per rendere la strada più veloce e comoda.

Il cemento viene prodotto sul posto.

Lungo la strada si vedono persone che vendono fossili, manufatti e argento.

I villaggi sono di poche case. Altri sono dei veri paesi.

Mentre inizia la discesa dall’altro versante, verso il deserto.

Incontro città e villaggi in ridenti oasi e un viavai di persone e animali. Il clima cambia.

Uomini e donne che camminano ai bordi della strade.

In Africa le distanze sono lunghe. Si cammina sempre molto.

Camminare fa bene. Si cammina e si pensa.

Vedo bambini che giocano. Bambini che vanno a scuola.

Il tempo dilatato è cadenzato dal richiamo del muezzin alla preghiera.

Sono incuriosito da questo viavai di gente.

Allora mi metto a camminare ad osservare a seguire le gesta e il cammino di questo popolo meraviglioso. Mi perdo per le strade dei villaggi. Sempre gentile e disponibile ogni persona a cui chiedo qualcosa.

Scopro momenti di vita e gestualità scomparsi nell’Occidente assassino.

La lentezza della gestualità rispecchia la lentezza di vivere di chi ancora può salvarsi.

Qui ancora può germogliare la pace e la democrazia.

Nella valle che delimita Tinghir ci stanno lunghi campi coltivati. La palma domina il paesaggio.

A volte il palmeto si fa fitto. Mi addentro a camminare lungo gli orti.

Non sento che uccelli e ragli d’asino.

Una pace incredibile regna su queste oasi. Incontro vecchi a passeggiare solitari.

Mi dicono che ogni famiglia possiede una palma e un rettangolo di terra da coltivare.

L’acqua attraverso canali serve ad innaffiare il proprio orto.

Un mulo trascina l’ aratro e sulla terra appena nuda piovono uccelli.

Il canto delle tortore domina sul silenzio di Tinghir.

Qualche donna è intenta a raccogliere ortaggi.

E a bassa voce parla con un altra donna che raccoglie foglie di menta.

Altre stanno al ruscello a lavare i panni. Una donna utilizza una lunga foglia di agave per battere i tappeti sopra una pietra ai margini del torrente. Mi chiede di non voler essere fotografata.

Rimango circa un’ora e più in questo paradiso terrestre.

Da qui non vorrei andar via.

Al margine di un canneto mi siedo finché colmo di tanto sentire non riprendo a camminare. Un anziano signore trasporta un secchio di patate. Come se portasse un bottino inestimabile. Mi sorride e mi saluta.

Questo silenzio, questi uomini mi trattengono a vivere momenti in una calma difficile da scrivere. Sono preso da un totale senso di bellezza del luogo e dalla pace che esso infonde nel pensiero e nell’anima.

Attraverso la kasbah di Tinghir a 1430 metri. Vedo fossili marini del Mesozoico dappertutto. Tinghir è in mezzo a una grande oasi lunga più di 30 chilometri.

Vedo che alcune persone sono intente a costruire mattoni.

Vado al mercato e mangio qualche banana, piccola ma dolce e profumata.

Poi mi prendo una piccola porzione di olive.

Qualcuno vuole vendermi tappeti ma non sono interessato. Sono troppo preso dal cammino.

Riprendo il viaggio tra emozioni passate, presenti e a venire.

Vado alle gole del Todra, tra le rocce rosse di argilla e calcare, da dove esce il fiume Todra.

Il fiume esce dalla montagna tra pareti altissime. L’acqua è gelata. Molte persone riempiono serbatoi di fortuna. Li trasportano sopra gli asini. Attraverso a dorso d’asino la riva per circa un chilometro. Mi piace andare a dorso di asini.

Qui incontro dei berberi che vendono tappeti fatti dalle loro mogli e figlie.

Mi fermo a parlare con loro.

Dopo una lunga contrattazione e varie strette di mani compro un tappeto.

Poi mi offrono un tè.

Attraversiamo territori pietrosi che scendono lentamente verso l’ immensa pianura predesertica.

Non vedo nient’altro che niente. Ogni tanto una macchina o un camion. Uomini soli ai bordi delle strade.

La strada ormai dritta si perde nell’orizzonte.

E col tempo è sempre più la sabbia a dominare il paesaggio.

Incontriamo gruppi di poche case.

Cubi giallo-grigi sulla sabbia, con animali che pascolano intorno. E bambini che si rincorrono. Ormai è sempre solo sabbia. E il grande serpente d’asfalto si interrompe d’improvviso nella grande distesa di sabbia.

Il viaggio continua con un fuoristrada tra le dune.

Poi anche il fuoristrada si ferma. Ora si continua sui cammelli o a piedi. Io preferisco a piedi.

È quasi il tramonto. Lo scenario non è descrivibile. Lo si può solo sentire.

Dopo circa un’ora arriviamo alla tenda berbera.

A questo punto, mi tolgo le scarpe e inizio a camminare tutto intorno sulla calda sabbia.

La sabbia è rossa con la luce del sole al tramonto.

Questo tramonto sembra non finire mai.

Il sole rimane a lungo all’orizzonte come una palla di fuoco. Poi lentamente scende la sera. Ogni tanto arrivano refole di vento che alzano la sabbia.

E ancora vado in giro a piedi nudi. Incontro qualche turista solitario proveniente da altre tende.

Intanto la temperatura scende repentina in pochi minuti.

Raggiungo gli altri per la cena.

Intanto fuori dalla tenda alcuni uomini hanno acceso un fuoco. E intorno iniziano a cantare.

Li raggiungo. Fa freddissimo ma il fuoco riscalda.

Sono vestito con la djellaba. Rendo onore e gratitudine a questi uomini del deserto. Sono uno di loro. Così sono accolto come un amico. Un compagno di vita.

Uno di loro mi racconta vita e storia della sua famiglia. Dai suoi occhi traspare infinita umanità e gratitudine per il nostro interesse alla sua storia. Alla sua vita felice di uomo libero. E a quella della sua famiglia.

Da lontano si sentono altri canti. Si vedono altri fuochi.

Alle mie spalle le alture dell’ Algeria. Mi dicono che sotto quelle alture ci sta l’esercito marocchino. Da questo mondo di silenzio rotto solo dal vento e dai canti dei galli non vorrei tornare, ma proseguire senza meta sempre più dentro.

Sempre più in là. Andare andare. Andare ogni oltre.

Ormai è notte e mi metto ancora a camminare da solo.

Le stelle sono vicine alla mia testa sopra i miei occhi.

Sento l’abbaiare dei cani da altre tende. I cammelli stanno nei recinti.

La notte nel deserto si fa magia e meraviglia aristotelica.

Sono così pieno che non riesco ad addormentarmi.

Infatti sarà una notte di veglia ad ascoltare tutto il mondo intorno a me. Sento che qualche animale si trascina strofinando la tenda. Mi diranno che sarà stato un cane.

All’alba esco dalla tenda e la vita riprende con gli uomini già presi dalla vita in una tenda tra cui accudire gli animali, galline, ovini e cammelli. Una donna sta facendo il cous cous. Un’altra ancora prepara il pane. I bambini a piedi hanno raggiunto un tenda. È la scuola. Ci saranno 20 bambini, arrivati dai vari accampamenti.

Io riprendo a camminare da solo. Sempre a piedi nudi affondo i piedi nella sabbia ancora fredda della notte. Vado verso il sole in questo silenzio primitivo. Il silenzio della creazione. Questa terra d’Africa è il grembo materno. E si sente.

Questo mondo non va……

In grembo al tempo trovo il mio rifugio.. scriveva José Saramago dal suo esilio-rifugio nell’isola di Lanzarote.

Il disastro è in atto o è già avvenuto. Questa civiltà appare come una tragica sconfitta.

Intanto una magnifica utopia compare ad ogni aurora nei luoghi della terra.

La cosa principale è essere commossi, amare e sperare, tremare e vivere.

Disse lo scultore Auguste Rodin a Parigi. L’autore del Pensatore. Era la fine del 1800. Il peggio doveva ancora venire.