Riceviamo e con piacere pubblichiamo l’ottava di dieci storie scritte dal poeta mediterraneo Antonio De Luca, di Ponza, raccolte ne “I quaderni di Mogador”.
Sono storie scritte due anni fa come diario di viaggio
2 I quaderni di Mogador
Dimmi qual è il tuo compito Poeta? Io lo celebro.
Parlare con gli altri di me. Pensai a Pessoa.
Stamattina mi sono svegliato presto. Con questa frase di Rainer Maria Rilke nel cervello. Alla prima luce dell’alba. Dalla finestra vedo una fila di palme nella piazza. Fiancheggiano le mura della Medina di Essaouira. Sento le tortore e i gabbiani. Gli ultimi silenzi di una città che si sveglia. Con il passare delle ore vedo vecchi che si dirigono al porto. Mentre Rilke è ancora qui nella memoria a chiedermi cosa devo fare, cosa dico, a cosa serve scrivere poesie. Potrebbe essere che il mio solo compito sia Vivere.
Da qui il porto dista a piedi 5 minuti.
Iniziano a passare i bambini che vanno a scuola. Molti in gruppetti. Qualcuno da solo. Altri accompagnati dalle mamme. Sono tutti sorridenti. Alcune ragazze portano chador colorati. Da lontano sento una musica venire. È la radio dell’albergo. Vengo sempre in questo vecchio albergo gloria del passato.
Un poeta non può cercare altro. L’edificio bianco e maestoso ha una decadenza voluta. Tutto evoca un passato importante. Si chiama Desdemona. In questa casa ci venne Orson Welles e Rita Hayworth. Chissà se non proprio in una delle stanze dove ho dormito in questi anni. Orson Welles ci abitò a lungo. Stava spesso ad Essaouira. Ci girò il suo Otello. Qui trovò rifugio. A Hollywood tirava brutta aria per i filocomunisti. Per quelli non allineati alla cultura americana.
Otello dopo molte traversie. In America gli bloccarono i finanziamenti. Fu finanziato da Marocco, Francia e Italia. Il film vinse la Palma d’oro al festival di Cannes.
Sono circa le otto, ho aperto la finestra. Da ovest entra un’aria salina, si sente l’odore del mare. Ci sarà la bassa marea. Se è così andranno a prendere i ricci.
Ed io potrò andare tra gli scogli a scovare un po’ di vita di scogliera atlantica.
Ieri sera ho conosciuto una coppia di Lambesc un paesino della Provenza a nord di Marsiglia in viaggio di nozze. Lei conosceva già Essaouira ed è voluta tornarci. Sono simpatici e istruiti. Di mestiere fanno gli skipper per rotte oceaniche. Abbiamo parlato molto. Le affinità tra gli uomini permettono di aprirsi e raccontarsi le storie. Le affinità uniscono le persone. Danno forza ed entusiasmo alla convivenza, ai sentimenti. Ai legami forti.
Mi sono ricordato che fui sposato anche io qualche anno fa. Parlo di trenta anni fa. Lei era una brava donna. Perbene e con una certa eleganza. Un passato con molti drammi. Si portava indelebili cicatrici. Io venivo da una vita irrequieta e disordinata. Il matrimonio lo accettai con convinzione. Ma sempre mi sono sentito un po’ come Puškin. Il grande russo. Anche io come gli esiliati russi a Capri al tempo dei Romanov. All’alba del mio matrimonio nell’isola di Tiberio pensai: ormai è deciso il mio destino, forse un po’ troppo mi affrettai. Come nelle ultime strofe dell’Evgenij Onegin. L’opera di Aleksandr Sergeevič Puškin.
Abitavamo a Roma. Ma io non ero troppo contento di vivere a Roma. Vivere a Roma mi intristiva. La città non parlava il mio stesso linguaggio. La sua storia per me era orrore. A Roma la chiesa cattolica dominava ovunque. E poi sentivo la mancanza del mare. Dopo qualche anno tutto mi era insopportabile. Lentamente stavo entrando in una depressione. Perdevo ogni entusiasmo. Roma mi deprime ancora oggi. Nonostante ogni sforzo non riuscii ad avere con la città un buon rapporto. Fuggivo sempre verso le città di mare.
Erano troppe le diversità tra me e quella donna. Cercavo e desideravo altro. Uno stile di vita consono al mio essere. Mi consumavo lentamente. Tra i mille dubbi pensavo che forse non l’avevo mai amata. O l’avevo amata e non ero cosciente. L’amore pretendeva ben altro da me. Ma le avevo voluto bene. Questo si. L’avevo protetta sempre. E curata. Mi stavo consumando. Il dio amore, mi conduceva ad altro. A Napoli nella vecchia via Toledo una sera di primavera incontrai il mio vecchio professore di Latino e Italiano del Liceo. Forse era un messaggero del dio sapiente Apollo. Ebbi grande commozione. Lui mi accarezzò il viso. Dopo molti anni incontrare una persona tanto importante per me fu un miracolo. Nella città che mi partorì e mi diede la conoscenza capii che dovevo andare oltre. Quel professore Padre Barnabita mi mandò un suo ultimo messaggio. Napoli ancora una volta mi spingeva a riprendere il mare. Comunque con mia moglie fu una bella e degna storia. Su di lei decisi di sospendere per sempre ogni giudizio. E di ricordare solo quel poco di vita vissuta.
In quegli anni di convivenza a Roma tra me e la letteratura ci fu un silenzio che mi pesava. Qualcuno diceva che ero spento e depresso. La famiglia di mia moglie apparteneva ad una ricca borghesia di provincia. Col tempo influì negativamente su di me, anche se con me erano sempre gentili e buoni. Il problema ero io. Lentamente mi allontanai da quel mondo definitivamente.
La poesia mi aveva lasciato solo. La filosofia mi metteva inerme in un angolo. Come un pugile che sta perdendo la sua più importante partita.
Quel mondo borghese, da “gruppo di famiglia in un interno”, film di Luchino Visconti, non era fatto per me. Quella borghesia fatta di apparenze mi stava uccidendo. La fuga era l’unica salvezza. Nulla ormai mi legava a lei e nulla aveva più importanza nel trascorrere dei giorni. Se non la voglia e il bisogno di tornare a vivere. A innamorarsi. Fuggire verso la libertà. Non sapranno mai, queste bellezze da vignetta, questi prodotti avariati nati da un secolo cialtrone, soddisfare un cuore come il mio, scriveva Charles Baudelaire a Parigi. Dall’incontro di quella sera a via Toledo, questi versi mi stavano nella mente come una persecuzione. Un mantra, una legge divina. Un coro greco che ripeteva questi versi all’infinito sempre più ad alta voce fino ad assordarmi.
La fine di una storia comunque lascia ferite e dolori. Ma per me fu soprattutto una liberazione. Così quell’inverno ritornai a Lisbona. Pensando ad Albert Camus. In quell’inverno portoghese scoprii che in me viveva un’invincibile estate.
Mi fidanzai con una vecchia compagna della scuola media. Con lei finalmente potevo parlare di Catullo e dedicarle poesie d’amore. Le leggevo Saffo e Neruda. Dormivamo sotto le stelle. Davanti al faro, dove le berte nidificano. La sera facevamo i bagni nel mare dal colore della notte. Misi la donna finalmente al centro del mondo. L’amore è un Dio. Andammo a vivere un’estate al Rifugio sulla scogliera. Sopra un’isola. Lontano, dove regnava ogni pace. Un ritrovo spirituale, senza confini. Dove vive il pensiero primitivo. E la parola ha ancora un significato. Lei vestiva sempre di bianco. Voleva darmi un figlio. Ma da un anno non poteva più. Questo suo desiderio già mi riempiva. Mi sentivo padre di un figlio desiderato e condiviso, con una donna che parlava d’amore. Sarà la donna della mia vita? pensavo entusiasta. Un amore visionario che mi conduceva nell’oltre. Purtroppo lei è morta un anno dopo. Vissi giorni di grande dolore e smarrimento.
Passò un anno circa. E in un giorno d’estate arrivò lei. L’amore. Allora conobbi il Paradiso e poi l’Inferno. E ancora una volta la resurrezione. Quella vera.
Stamane a Essaouira sono molto felice. Ieri ho notato nuove gallerie d’arte e scoperto nuove strade, nuovi mercati e nuove vite. Sono molto entusiasta. Ci sono cose che mi piacciono, sicuramente sculture in ferro e quadri. Un ebanista costruisce modellini di barche con prezzi accessibili. Se una cosa mi piace la prendo. Decido dopo cosa farne. Un oggetto d’arte è come una storia d’amore.
Riprendo Steinbeck ed esco per la città. Vado ai bastioni a vedere il mare e a trovare l’amico tuareg che si è inventato un negozio di merci berbere. Anche usate. Gioielli e manufatti dai villaggi berberi. Mi offre il tè. Tra il francese e un discreto italiano ci capiamo. Mi fermo nella Medina seduto al sole in uno slargo. C’è una bella aria in questo caffè all’aperto. Tra palme e mura diroccate. Ed anche bella gente. Molti hanno un libro e stanno in silenzio. Non sento rumori, se non i pochi passi della gente e il battito dei becchi delle cicogne. A Essaouira come a Marrakech ci sono cicogne sui tetti ovunque.
Stare qui, ritornare in questi luoghi. Sul porto tra le barche, tra le persone, le case e le piazze è raccontare. Sono spazi per scrivere. Scrivere è ricordare, è sentire. Questi diari sono nati grazie a Mogador, alla sua gente. Alle visioni che propone. Come avviene nelle città in cui mi fermo e ritorno. Io e questi luoghi diventiamo la stessa materia. Questi luoghi escludono ogni velocità. Questi luoghi pretendono una lentezza. Danno esistenza.
Ecco che vidi passare la coppia di Marsiglia. Mi videro e mi vennero incontro. Decidemmo di pranzare insieme: pesce al porto. Proprio come nelle nostre città Marsiglia e Napoli. Entrambi innamorati di queste due città. Letizia mi chiese perché scrivessi poesie. Mi ricordai di Lawrence Ferlinghetti. L’editore e poeta di San Francisco di origini italiane. Scrivo poesie perché sono in contrasto con questa realtà. Ho bisogno di parole che contano. Mi sento primitivo. Ho bisogno di vivere altro in un altrove. Sono io stesso un altrove. Scrivo poesie e piccole storie risposi. Come Raymond Carver disse il marito Pascal. Si, risposi. Mi piace moltissimo Carver. Le sue poesie mi stanno dentro. Carver scrive piccole storie. Mi piace la sua scrittura. Il suo andare. Anche io, come Carver non amo i grandi romanzi. Le piccole storie siamo noi. Noi siamo fatti di tante piccole storie. Io non sono un divoratore di libri. Chi legge molto non ha capito a cosa serve il pensiero. Non conosce il tempo che diviene. La realtà del tempo. Il sapere molte cose non insegna a pensare: dice Eraclito. Io leggo poco e lentamente. Una pagina posso leggerla varie volte, e pensarla per settimane. Devo interiorizzare. Io i libri li leggo come se dovessi tradurre un testo dal greco o dal latino. Alle parole spesso associo il vocabolo o il pensiero greco. Sono distaccato dalle mode culturali. Dalle mode letterarie di questa massa militante di scrittori che non dicono nulla a lettori famelici del vietato pensare. Ai lettori del niente. Se io fossi Dio sarei molto violento con loro, per dirla alla Giorgio Gaber. Io vivo e penso per conto mio. Non si è mai vissuto tanto come quando si è pensato molto, dice Fernando Pessoa.
In sostanza questa fu la mia risposta a Letizia e Pascal. Con loro mi salutai. Rimasi da solo. Continuai a scrivere.
Le vetrine di Marsiglia mi ispirano e fanno pensare. Così le vetrine di Marrakech. Ma tutte le belle vetrine mi piacciono. Mi danno una carica estetica. D’altronde anche Calvino al mattino si faceva il suo giro per le strade di Parigi, a guardare le vetrine. A Milano mi piace molto la vetrina della Libreria del mare. In questa vetrina ho scoperto la storia di Tom Neale. Quest’uomo è vissuto solo. Per 10 anni sopra un atollo. Il libro l’ho letto due volte nella stessa settimana. Così è successo anche per La vera storia della baleniera Essex, scritta da Owen Shese. Anche questa trovata in quella vetrina. Shese era il primo ufficiale che si salvò dall’incontro della baleniera con il capodoglio albino. Dalle sue storie Melville scrisse una delle più grandi pagine della letteratura mondiale.
A Marsiglia mi piacciono anche i caffè e le pasticcerie. Sono molto belle e accoglienti. Mi fermo, a lungo a leggere e pensare. Mi piace guardare le donne nei loro vestiti e nei loro atteggiamenti quotidiani. Le smorfie, la civetteria, le voci, gli sguardi. Come Guido Gozzano amo le donne quando prendono cappuccini e mangiano brioche. Sulle loro labbra impastate di crema o cioccolato ci metto le rive del mare. Dove bisogna naufragare per vivere. A Marsiglia sono tornato varie volte. Jean Claude Izzo mi piace molto. Prendo casa sulla Canebière. A Noale. Il mediterraneo mercato di Izzo. E frequento i suoi ambienti. Marsiglia ha un’anima dove arrivano tutti i porti di mare. Così da farne un luogo unico.
Sono stato ad Ait ben Haddou nelle montagne dell’Atlante marocchino. Qualche giorno fa. Qui Pasolini ci girò Edipo Re. Avevo 15 anni quando lo vidi la prima volta. Rimasi stupefatto. Un opera d’arte altissima, anche se di difficile interpretazione. Grandissima fu Silvana Mangano nella parte di Giocasta. L’ho sempre apprezzata. Un mito di bellezza e di bravura. Eleganza sublime. Estetica greca. Una donna di grande intelligenza e fascino. Una Musa per molti registi. Sembra una donna scolpita da Fidia. Ho un suo ritratto a casa. È deificata nell’atto di ricevere un bacio da Edipo. Lei non sa che è suo figlio.
Ad Atene, l’amico Pietro vide un’erma in terracotta della Dea Igea. Era abbandonata in una cassa. Aspettava qualche straniero che la liberasse dall’oblio. Fuori ad un antiquario. La presi. La portammo con noi in giro per Atene tutto il giorno. Come se fosse stata una persona. Il volto della Dea con i capelli rappresi alla greca. Con l’eleganza antica di un mondo in cui ancora vivo. La Grecia ovunque vado, me la porto dentro. Un baule pieno di gente con cui è bene ed è bello vivere. Al mio rifugio, la dea ha un altare sul mare.
Agli amici marsigliesi oggi proporrò di mangiare sarde arrosto al porto. In ogni porto voglio mangiare sarde arrosto con cipolle fresche e bere vino rosso. A Valparaiso, a Marsiglia, Istanbul, Essaouira, Tangeri, Beirut, Lisbona, Barcellona, Porto, mangio sarde arrosto. Il profumo che emanano sul fuoco lo sento da lontano. È un richiamo ancestrale forse. Consiglio agli ospiti di mangiare solo con le mani. E poi leccarsi le dita. Tutto con le mani. Mangiare sarde arrosto. È un atto propiziatorio a una funzione divina per gli dei del mare. Mangiare con le mani è un atto di subordinazione.
La vita quotidiana nel Mediterraneo è un grande teatro. Non posso fare a meno di vivere su questo palcoscenico. A volte mi assento. È il silenzio che mi pretende.
Marsiglia è bella e me la porto dietro da bambino. Bevo tanto Pastis. Quando bevo Pastis devo ascoltare jazz. Vado al Panier. L’antico quartiere di immigrati sopra il vecchio porto. A Marsiglia venivano i miei nonni con i bastimenti e poi mio padre in nave. Mia madre ci visse da bambina. Ci salutammo con i marsigliesi. Loro sarebbero partiti il giorno dopo. Mi invitarono a Capodanno da loro in Provenza dove hanno una casetta. Io ricambiai la loro gentilezza invitandoli a Ponza.
Intanto sono tornato al Desdemona e ho ripreso a scrivere. Oggi scrivo tutto il giorno. Altre volte per niente.
Ho pensato che sarebbe bello mettere il lettino dove è morto mio nonno. Nella vecchia casa sopra la baia del porto di Ponza. Lo accompagnavo tutte le sere dopo cena a dormire. Una volta sono caduto nel braciere. Lui si è alzato morente per salvarmi. Sarebbe morto il giorno dopo dicono. Quel letto, nell’angolo di una semivuota essenziale stanza con tetto a volta. Come una basilica romana. È diventato il mio primo letto. Mio padre mi leggeva il libro Cuore. Ed io piangevo. La gola mi bruciava. Quelle storie divennero insopportabili. Allora me ne andai per conto mio.
Su quel letto. Nella bianca soffusa luce dei pomeriggi d’inverno. Lessi i miei primi libri. Robinson Crusoe, Il duello di Cechov, L’uomo e il mare di Hemingway e iniziai a leggere Moby Dick di Melville. Poi iniziai a sfogliare carte nautiche e album geografici. Guardavo sempre terre circondate dal mare. Le immaginavo tristi e abbandonate. Scoprii che si chiamano isole. Da allora non sono più sceso dalla barca di Hemingway. Da quelle isole. Da quel primo letto tutto mio. Su quel letto con due materassi di lana ci nascosi il mondo. Mi abbandonai all’immaginazione, al sogno. Divenne l’isola del tesoro. E Moby Dick la balena che ogni giorno mi salva. E mi spinge a riva. Ma a volte mi spinge da qualche altra parte dalla mia volontà. Melville è il vento, il mare.
Come Omero, come Borges. Vede oltre. La letteratura fa respirare. Dice il poeta francese Roland Barthes.
Di quella stanza col misero lettino oggi ne ho fatto un tempio. Dove ognuno si sceglie il suo Dio, il mito che gli appartiene. L’ho riempita di statue di marmo bianco e vecchi gioielli berberi. Anche tanti profumi. I libri sono dappertutto. A volte sembrano onde di burrasche venute ad annegarmi. Ho rimesso il letto del nonno. E sono tornato nei pomeriggi d’inverno. I vecchi mobili e i giocattoli che mi costruirono. La luce è sempre la stessa. Pessoa è sul comodino. Così i libri di poesie che ho scritto tra i porti del Mediterraneo. O forse è meglio dire tra i bassifondi dei giorni. Le poesie stanno in ordine sparso sul comò con le foto di chi mi partorì e mi insegnò a remare. La mia famiglia di naviganti mi ha fatto straniero ovunque. Sono orgogliosamente straniero. Senza alternative. Un vagabondo. Un bohémien dicono. Amo essere solo o con poche persone. La solitudine non è essere soli, la solitudine è il non essere capaci di fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi. Così parlò José Saramago. Amo essere nei posti dimenticati della terra. Solo. Devo portare chi amo e mi ama. E condividere l’ignoto. Le profondità della lontananza.
Posso dire di essere cresciuto anche nel museo archeologico di Napoli e nei siti di Pompei ed Ercolano, e soprattutto tra i resti di Pausylipon. A Posillipo, la collina che domina il golfo di Napoli vissi 5 anni. Sono gli amori segreti che condividiamo con certi luoghi della terra.
Sulla strada per Ait Ben – Haddou ho incontrato una ragazza in un villaggio di poche case. Alta, magra, seducente, armoniosa. Terribilmente sensuale e bella. Camminava scalza tra la sabbia dove il deserto inizia. Al confine con l’Algeria. Andai a casa sua a comprare il pane. Così piena di bellezza. Aveva la grazia di una ballerina russa. Lo sguardo dell’ignoto che abbraccia. Scuro e profondo quanto tutta la terra. Mi sarei inginocchiato a quella donna chiedendogli amore eterno. Il pane che mi diede da quelle affusolate scure e lunghe mani era benedetto pensai. Non la dimenticherò. Una Venere. Le volevo dire i versi di Omar Khayyam: Una brocca di vino un poco di pane e tu accanto a me che canti nel deserto. Fuggiamo da questo mondo, mentre l’umanità si autodistrugge sotto l’ira degli Dei.
Spesso mi innamoro dell’impossibile. E so che deve essere così. Il mondo di oggi mi appare povero di umanità.
Pavese, in Lavorare stanca, scrive che siamo fatti per girovagare. Non voglio lasciare tracce di questi passaggi ma solo ombre. Il fondale da dove sto chiamando è senza indicazione di luogo. Le isole rendono stranieri.