Riceviamo e con piacere pubblichiamo la sesta di dieci storie scritte dal poeta mediterraneo Antonio De Luca, di Ponza, raccolte ne “I quaderni di Mogador”.
Sono storie scritte due anni fa come diario di viaggio
7 I quaderni di Mogador
Taros è il nome di un vento. Che qui a Essaouira tira forte dall’oceano. Non ti avvisa. Può arrivare in qualsiasi ora del giorno. A Essaouira questo vento decide. I gabbiani si sentono in qualsiasi ora del giorno. Anche durante la notte. Stasera Taros tira forte.
Dopo cena ho fatto quattro passi al porto. Solo gatti e qualche pescatore, turisti qualcuno. Nel cielo limpido della notte lo spettacolo degli astri. E il rumore del mare sugli scogli entrava fin dentro le mura della città. Il vento e il mare li sentivo dalla camera. Per qualche istante ho lasciato la finestra aperta. Il vento portava un’aria di salsedine.
L’odore mi portava dietro negli anni. Nei luoghi del Mediterraneo.
Essaouira fu disegnata da un architetto francese. Il suo nome vuol dire la ben disegnata. Fu fondata dai portoghesi col nome di Mogador.
Nel ritornare a casa ho fatto la solita sosta alle terrazze di Taros. Un bellissimo locale su terrazze dove si ascolta bella musica. Dal Jazz agli chansonnier francesi e non solo. Il locale prende il nome appunto dal vento.
Ieri un francese con capelli alla George Moustaki canta Vieni via con me di Paolo Conte. Qui posso bere vino rosso. Quanto ne voglio e buono. Lo fanno nel nord Africa. Regione del Marocco mediterraneo.
Mentre stavo per qualche ora da Taros. Tra i gabbiani e i pochi avventori. Con le stelle luminose sopra la penombra degli uomini. Il suono delle onde entrava dentro di me forte. Come un racconto antichissimo. Mistico e misterioso. E poi logico. Primigenio. Così pensavo.
E prendo allora a scrivere sopra dei fogli che mi faccio dare dalla signora del bar. Una francese che si è trasferita a Essaouira da molti anni.
Questa solitudine che vado a cercare è una virtù. Un esercizio alla libertà. Serve al pensiero e alla vita in genere. Fa fare pulizia. E serve. Allontanarsi dal mondo. Prendere le distanze da esso. Ed in particolare da una certa vita, fa bene.
Questo mi successe quando andai a vivere a Lisbona nel 1999. La mia rivolta. Ogni tanto bisogna fare pulizia. Rendere alla vita la dimensione che gli spetta. Ripensare il mondo da un altro mondo. Bisogna allontanarsi e mettersi in viaggio. Perdersi per ritrovarsi.
Perdersi a Lisbona come oggi a Essaouira, e ovunque vado. Mi piace mi esalta. Mi eccita. Mi fa stare bene. Non voglio la coscienza della presenza. Vago senza meta. Senza sapere neanche cosa fare e dove andare. Vagare e basta. Un flâneur direbbe Charles Baudelaire. Un uomo che cammina tenendo una gallina al guinzaglio per sponde al mare.
Il viaggio è metafora omerica. Lisbona la mia amata Lisbona. Gli inverni con lei. Come due amanti che si giurano fedeltà e amore eterno. Fuori da ogni logica, solo per il senso della vita. Per vivere. Senza una ragione. Mi son sempre chiesto cosa potrà capire la ragione di me.
La vita a Lisbona fu un presagio da Delfi. Un oracolo mi accarezzò il viso. Capii che dovevo partire. Lisbona oh Lisbona. Finalmente mi apparve la città dall’alto. Mentre l’aereo scendeva dall’oceano sulla città. Era il primo inverno a Lisbona. Il cuore mi batteva. Ritornavo a Lisboa. La città mi accoglieva nella sua luce bianca. Come braccia di donna che ama.
In quei mesi la sera nel tornare in albergo ero solito passare per Rua do Alecrim. La strada che in salita dal porto va su in città. Al Chiado. Vivevo da solo. Con solo letteratura e poesia. Lo desideravo da tempo.
Attuare questa nuova vita, fu una liberazione. Come Ricardo Reis, nel libro L’anno della morte di Ricardo Reis di José Saramago. Un libro su Fernando Pessoa. Mi immedesimai in Ricardo Reis. Uno degli eteronimi di Fernando Pessoa. Così tanto che in alcuni momenti del giorno pensavo e vivevo come lui.
Un esperimento che avevo organizzato già da tempo in Italia. Andare da solo a Lisbona e cercare di vivere come Ricardo Reis. Come in un film, ero sceneggiatore regista e attore. Io Ricardo e Lisbona. Arrivato nella bella piazza Luis de Camoes mi fermavo qualche istante. Mi voltavo intorno più volte. A godere del buio dei palazzi dei passanti delle luci della città.
Avevo conosciuto una ragazza di Capo Verde. Una studentessa. Ci incontravamo al chiosco della piazza.
La gente nei tram che tornava a casa. Mi dava calore. Mi sentivo uno di loro. Godevo di una città che con i suoi scrittori non si ferma mai. Non smette mai di pensare, di camminare, di vivere. Perché Lisbona pensa. Pensa sempre. E questi pensieri li senti e li vivi. Lisbona ti fa pensare, è primordiale. Apollinea.
Lisbona parla come l’oracolo di Delfi. Dice e non dice. Ammicca. Lascia il dubbio. Il Dio conosce l’avvenire ma non vuole manifestare. Così è Lisbona. Poi sapiente. Manifesta l’ignoto e precisa l’incertezza il dubbio.
Proseguivo per Rua Garret il ritorno in albergo. Qualche volta cenavo al Ristorante Benard. Soprattutto se faceva molto freddo e l’inverno si sentiva. Mi sedevo vicino ad una stufa. Solito tavolo solita stufa. Il cameriere mi conosceva. Già sapeva quello che avrei mangiato. Un bacalhau à braz. Uno dei miei piatti portoghesi preferiti. Baccalà sminuzzato con patate anch’esse sminuzzate. E uova fritte e anch’esse tagliate sottili. Il tutto con prezzemolo. Il vino era il bianco dell’Algarve. La regione a sud del Portogallo. E infine l’immancabile Arroze dulce. Un riso con crema di latte per dessert.
Qui ero solito leggere mentre cenavo. Ripetevo i pensieri di Pessoa nel Libro dell’inquietudine. Non si smette mai di pensare a quei pensieri. Lisbona è Pessoa. Pessoa è Lisbona.
Come dicevo l’Algarve è la regione a sud del Portogallo. Guarda l’Africa e l’Andalusia. Qui il mare cambia. Entra nel Mediterraneo. Amo l’Algarve mi piace molto. Ancora ci ritorno.
All’isola di Armona e sulle sue spiagge ci passo qualche giorno. L’isola di Armona ha una storia particolare. Affascina gli uomini liberi da tutto il mondo. Dall’Australia all’America latina. I suoi primi abitanti erano poveri che non avevano una identità. Si costruirono baracche di fortuna. E si inventarono pescatori. In seguito fu dato a loro un’identità da Salazar. Il dittatore fascista. Dopo le proteste degli stati d’Europa e dei portoghesi. Qualcuno andò in carcere. Oggi l’isola è un parco naturalistico. È particolarmente frequentata da hippies e viaggiatori liberi. Avventurieri. C’è un ostello per l’accoglienza e un paio di ristoranti. È un’isola sulla sabbia. Le case basse sono poche e tenute bene. Ed è severamente vietato ogni intervento urbanistico. Una volta morto il proprietario se non ha eredi, la casa viene abbattuta.
Ad Armona le case non si vendono. L’isola è raggiungibile con una motobarca dalla città di Olhao. Ci vogliono 20 minuti. Praticamente ad Armona si vive sulla sabbia. Si esce di casa e dopo la porta ci sta la sabbia. La sabbia è il luogo dove i bambini vivono e giocano. La sabbia sta dappertutto. Armona vive del suo essere selvaggia. Così come è nata. Qualche relitto di barca è tenuto come un monumento. La vegetazione è bassa. Solo arbusti. E qualche tamerice o pianta grassa tra le case. La gente ha piccole imbarcazioni di vetroresina. Leggere. Spesso li tengono fuori casa. Al riparo dai marosi dove l’isola guarda la terraferma, ci sono una decina di barche ormeggiate alla boa. Sono dei pescatori. Davanti alla spiaggia, dove dei bambini non fanno altro che tuffarsi. Un uomo si immerge, torna con dei frutti di mare e li propone nel suo ristorante ad una coppia di americani della California.
Dopo aver attraversato il Portogallo da Lisbona a Cabo Sao Vicente. Io e Rui, il mio amico di Porto, viaggiammo per la regione del Parco natural de sudovest alentejano e Costa vicentina. La prima sosta fu Faro. Qui troviamo da dormire in uno ostello. La città durante la bassa marea all’alba profuma di alghe. I marciapiedi in mosaico bianco e nero, come quelli di Lisbona, bagnati di umidità marina, sembravano di raso setoso. Davano l’impressione che mi avvolgeranno i piedi.
Per arrivare in albergo a Lisbona faccio Rua Garret e poi giro a sinistra. Attraverso il Rossio, Praça dos Restauradores e prendo Avenida da Liberdade. Questo è un tragitto che faccio da qualche mese. A volte cammino per Rua Augusta. La via che dal Tago entra, sotto un arco trionfale, nella città bassa. La baixa. L’albergo Suico Atlantico è in Calcada da Gloria. Una traversa in Avenida da Libertade.
Al mattino da lì prendo una funicolare e salgo al Bairro Alto. Al Miradouro de San Pedro de Alcantara. Qui mi siedo e leggo qualcosa sulla solita panchina. Mentre la città e il fiume vivono sotto di me.
Il Suico Atlantico fu la mia casa in quell’esilio-asilo degli inverni a Lisbona. Per tre inverni abitai li. Qui mi inventai una nuova vita. Essere solo e tagliare ogni comunicazione con la vita precedente. Telefonavo solo a mio padre e una zia a Ponza per rassicurare che ero vivo.
Mia sorella col marito mi vennero a trovare. Desideravo una diversa umanità. Una vita diversa da quella che avevo vissuto a Roma dal 1990 al 1999. Una vita estranea alla mia condizione di uomo libero. Ma soprattutto di poeta. Ma anche filosofo. Come pensa che io sia l’amico giornalista e scrittore Gian Luigi Nuzzi.
A Lisbona conducevo una vita anonima tra persone anonime. Volevo essere fuori da quella società borghese presa solo dall’utilità e dal guadagno. La società economica. Aliena da ogni forma poetica. Non ero adatto a l’ideologia borghese e massificante della città di Roma ancora papalina e ministeriale. La Roma che purtroppo vivevo. Desideravo altro.
Mi ero allineato al peggiore provincialismo. Purtroppo non sempre dipendeva da me. Volevo ritornare a una vita di poesia. E di mare. Per la mia estetica. Per l’essenza di cui sono fatto. Via, via dalla bruttezza di quel mondo. Devoto solo alla bellezza. Agli Dei dell’Olimpo. Al De rerum natura di Lucrezio. Dovevo pur salvarmi.
Lisbona era fuori dalle regole sociali borghesi. Mi lanciava un salvagente. Qui vivevo il mio essere poeta. Vagabondo, in difesa. Contro l’assorbimento sociale da parte di un mondo invadente e insignificante.
In quegli anni anche Ponza e Napoli iniziavano a diventare insopportabili. Il personale dell’albergo era gentile e ben disposto. Proprio come qui ad Essaouira. Non vivevo volgarità e provincialismo. Arroganza e bruttezza. La vita a Lisbona si svolgeva in un garbato silenzio e rispetto. Niente era solo di facciata. Lisbona era ed è il mondo. Dopo Lisbona solo l’infinito.
Spesso qualcuno mi veniva a trovare dall’Italia e da Parigi. Gli avventori dell’albergo di solito erano qualche turista francese o spagnolo, squadre di calcio e gente qualunque di passaggio. Lisbona non era in Europa. Non era rotta turistica. A Lisbona bisognava arrivarci. La città pretendeva un percorso una strada. Bisognava aver camminato per arrivare a Lisbona.
A Lisbona non si va. Si arriva. Scelte precise di chi deve scoprire. Io ero l’unico cliente fisso in albergo. Avevo fatto un contratto. Ero diventato un inquilino dell’albergo-casa. E questo solo mi interessava. L’avevo deciso già in Italia questo sperimentale stato di dimora.
Gli anni di Roma mi stavano facendo perdere ogni interesse. La virtù e la meraviglia facevano fatica a resistere in me. Dovevo ritornare ad amare e vivere. Con illusioni e senza illusioni. Una visione del mondo. Una visione non di rinuncia. La certezza di aver obbedito solo a me stesso. E voler bastare a me stesso. Vivere secondo la mia natura. Il mio sentire la vita. Il gusto della meraviglia. Avevo la necessità di fare un’altra vita. Una vita semplice. Vivere una vita d’arte e letteratura. Vivere nascosto dalla folla, dalle piazze, dalla gente. Inoltre maturava il tentativo di fuggire da una nazione Italia che non condivido. Una disobbedienza alla David Thoreau.
Lisbona era per me la via del Rifugio di Gozzaniana memoria. Una fuga totale. Di un Essere platonico. Bisognava riprendere il supremo soggetto dell’amore e della bellezza. Insomma un vivere per vivere. Tra l’avere e l’essere sceglievo ancora una volta l’essere.
I portieri di turno dell’albergo, la signora che mi preparava il letto, le ragazze della colazione. Divennero una famiglia. Una buona famiglia. Ed era ciò che avevo bisogno in quel momento. Una calda famiglia-non famiglia su cui poter contare nella quotidianità dei rapporti. Con la sincerità e l’affetto. Senza legami. L’andai a cercare proprio in quella città.
Lisbona la città del visionario Fernando Pessoa. Era lui che da tempo mi chiamava per trascorrere un poco della vita tra la sua gente. Tra le sue strade. Nelle sue visioni. Calpestate dal suo inesauribile pensare. Riprendere la mia vita immaginaria. Tutto quello che non mi sarei mai aspettato. A Lisbona sembrava che ogni cosa aspettasse il mio ritorno. Ogni inverno tutto mi accoglieva. Questa città. Uno spazio infinito sugli oceani. Fuori da ogni tempo, da ogni moda. Si era nutrita di tante culture. Volli ritornare con forza e convinzione volutamente. E con inimmaginabile entusiasmo divenni uno straniero a Lisbona. Un desiderio che mi portavo addosso da tempo. Essere uno straniero.
Ci fu una Pizia a dirmi di partire. Parlava a nome di Apollo. Il Dio sapiente. In questo luogo-non luogo, che il tempo sembrava aver dimenticato, incontravo lo straniero che era in me. La vita mi piaceva. E ritornò slancio, poesia, passione e genio.
Come qui in Marocco. La vita tra Tangeri, Marrakech, Essaouira e i villaggi berberi dei monti dell’Atlante. Luoghi come muse ispiratrice. Ma ogni luogo dove sono passato e ritornato è musa ispiratrice.
Tangeri la città franca. Rifugio di artisti di ogni genere in questi due ultimi secoli. Così come Marrakech. Ed Essaouira città dal fascino ineguagliabile. Porto d’arrivo di innamorati della vita, dell’arte, della libertà.
Il tempo non conosce Lisbona. E la città non conosce il tempo. Come il tempo non conosce me. La città non dimostrava di avere confini e quindi misure. Un anarchico ci sta bene.
In questo Essaouira le assomiglia. Sono zattere di pietra. Come definisce José Saramago il Portogallo. Zattere che viaggiano all’infinito. Così sentivo Lisbona. Una terra che galleggia sul mare metafora del destino. La città mi navigava e nello stesso tempo ero suo naufrago. Mi sentivo mare zattera e naufrago allo stesso tempo.
Camminavo giorno e notte tardi per Lisbona senza sosta. Con qualsiasi tempo. Quando pioveva avevo un grosso ombrello. Preferivo camminare lungo il fiume, e sentire l’eco dei passi con la pioggia sull’acqua del fiume. Le grandi navi che attraccavano alle banchine. E immaginare le loro destinazioni. I gabbiani e i rumori del porto. Camminavo in direzione oceano. Oltre il fiume c’era il mondo. Non mi stancavo mai di andargli incontro. E quando mi stancavo era perché realmente ero stremato dal cammino. Allora prendevo un taxi per tornare in albergo.
Con me quell’anno portai a Lisbona vari libri. Tra questi L’anno della morte di Ricardo Reis, il Livro do Desassossego di Fernando Pessoa, regalatomi dall’attrice tedesca, Nicolette Liebscher a Vienna, nel 1988. Qui scoprii Fernando Pessoa. E non l’avrei più lasciato. Avevo anche Friedrich Holderlin, Bruce Chatwin e Jack Kerouac. Ma anche Omero e il De rerum natura di Lucrezio.
Spesso mi leggevo i primi versi dell’inno a Venere appena sveglio. Prima di uscire. Come fosse stata una preghiera. Una pagina di Kerouac la leggevo spesso durante un solo giorno. Con Chatwin, Sepulveda, Coloane ed Eduardo Galeano mi entusiasmai. Galeano un intellettuale sottile. Rivoluzionario. Un anarchico. Una guida morale e spirituale. Ernesto Sabato l’esistenzialista argentino divenne il maestro. Fui come rapito da questi uomini.
Iniziai così a interessarmi al sudamerica. Qualche anno dopo ci andai. Buenos Aires mi accolse. Mi innamorai di Daniela.
A Lisbona comprai una piccola cinepresa. Durante il giorno, registravo tutto. La notte in albergo le rivedevo. Facevo dei montaggi alla buona. Filmavo immagini nascoste di vita quotidiana. I suoni della città. La voce della gente. Vecchi e bambini. Mestieri antichi che andavano scomparendo. Uscivo al mattino presto. Solite strade. Solite facce. Soliti odori. Solite ombre lasciate il giorno prima. La luce della città. Il vento dall’oceano.
A volte attraversavo il parco dei giardini da Estrela. Amavo sentire il canto delle tortore. Tutto sentivo addosso. La mia vita totale. In armonia col passato e il presente e il futuro. Entusiasta delle giornate. Degli accadimenti inaspettati. La meraviglia di vivere.
A volte facevo una seconda colazione a Rua Augusta alla Pastelaria Fabrica da nata. Qui incontravo un vecchio non vedente che suonava l’organetto. L’appuntamento era intorno alle 10. Chiedere l’elemosina è un atto di grande dignità e coraggio pensavo. Chiedere aiuto per vivere fa parte dell’esistenza dell’uomo. Chiedere aiuto è un atto di verità. Tutti in un certo modo chiediamo aiuto per vivere. Tutti siamo elemosinati. Dobbiamo aiutarci a stare meglio.
La vita prevede l’elemosina. È diritto dell’uomo vivere con dignità. Mangiare bere vestirsi sognare creare pensare dire. Ma pensavo che l’elemosina non dovrebbe esistere. Il vecchio lo salutavo e gli portavo la colazione. Spesso c’era chi mi anticipava.
Lui ormai conosceva la mia ombra e la voce. Gli parlavo nel mio portoghese disarticolato. Mi augurava sempre una buona giornata. Col garbo e l’umanità che può avere chi non vede. Un giorno scomparve. Seppi che era morto. Ho la nostalgia di quella storia. Chi non vede vede oltre. Chi non vede vede dove non vede chi vede.
Poi riprendevo a camminare e pensare, fermarmi, fotografare, appuntare. Era la mia unica preoccupazione. Come i filosofi ad Atene. Pensavano camminando. A Lisbona pensavo molto e scrivevo su tutto. Ma molto di quei diari e fogli smarrii. La città è un libro.
Quando avevo voglia di scrivere mi fermavo sulle banchine del fiume Tago o alle taverne dell’Alfama. Ho sempre amato le piccolissime trattorie a conduzione familiare. Ovunque mi trovo frequento questi piccoli ambienti che fanno da mangiare. Mi sembra di stare in una casa. La vita si svolgeva naturalmente. Tutto accadeva e succedeva davanti a tutti. Tutti eravamo complici per qualche ora di una storia. La vita appartiene a tutti. Si parlava tra di noi e ci si raccontava.
Mi ricordavo di quei posti al porto di Napoli. Ci andavo la sera a cena con mio padre. Vivevo con piacere quella parte della vita vissuta a Ponza e Napoli o sulle navi quando navigavo con mio padre. Vivevo la vita dell’adolescenza e poi della prima gioventù.
Ad una certa ora all’Alfama ritornavano i bambini dalla scuola. L’Alfama è la vecchia Lisbona. La prima Lisbona. E le stradine e le taverne si riempivano di nuova vita. Sentivo il profumo del cucinato. Le strilla di gioia dei bambini che giocavano rincorrendosi. I vecchi andavano all’uscita delle scuole a prendere i più piccoli. Era bello vedere i vecchi e i bambini mano nella mano. Molti bambini erano figli dei proprietari delle taverne. Quindi vivevo il loro ritorno da scuola. E mangiavano seduti vicino a me. Queste taverne erano piccole, massimo contavo sei tavolini. Anche questo era un mio ritorno all’essere stato un bambino fortunato in quell’isola mediterranea. Una stanza essenziale dove tutto avveniva. Ero cresciuto molti anni con i nonni.
Filmavo queste immagini. Mi riempivo di voglia di essere presente. Le stradine dell’Alfama non erano allora frequentate dai turisti. Bisognava essere altri e cercare altro per arrivare qui. Bisognava avere altra esistenza per venire in questo quartiere. L’Alfama era un paese in una città. Manteneva la sua vita, il suo essere mondo a parte. Fuori dalla logica della metropoli. Alfama era una identità. Mi piaceva molto, riuscivo a comunicare con tutti. La sarta, il ciabattino, il panettiere, gli osti e le mogli che cucinavano.
A pranzo spesso mi sedevo con i vecchi delle trattorie. Questi con i bambini mi offrivano sorrisi e parole. Un vocabolario di sguardi, di occhi e parole ormai estinti. Questi vecchi ancora ricordavano un mondo che stava per finire. I vecchi di Lisbona. Come i vecchi di Mogador. Come i vecchi della mia infanzia a Ponza. Come i vecchi ai margini dei porti mediterranei.
Al Miradouro de Santa Lucia spesso, sopra l’Alfama mi fermavo al mattino presto. Era un posto per poter scrivere. Uno sguardo sul fiume e la città. Prendevo un caffè americano che facevo durare ore.
Poi passai al Pernod. Molti Pernod. Aprivo lo zaino, e col piccolo binocolo Nikon vedevo le grandi navi alla fonda sul Tago. Pensavo che anche mio padre aveva trascorso giorni sul fiume con la sua nave in attesa di andare al molo. Guardavo il fiume scrivevo con entusiasmo. Sembrava che la vita intorno mi abbracciasse, come anche qui a Mogador. Ascoltavo i suoni e i profumi che venivano dalle case. Ero a casa mia.
Le case dell’Alfama sono arroccate in strette viuzze, e dai balconi si sentiva l’ odore del bucato a mano. A volte qualche ragazza intonava un Fado mentre stendeva bianche lenzuola. Era quasi sempre la voce di Amalia Rodriguez che usciva dalle case e riempiva l’aria e il tempo. Nelle giornate di sole tutti erano affacciati al balcone e alle finestre. Molti sui gradini delle viuzze a chiacchierare coi vicini. O seduti alle poche panchine ai margini delle stradine o delle scalinate. L’Alfama è un labirinto di saliscendi dove nessuno si perde e i bambini giocano per strada. Ogni giorno incontravo i soliti vecchi. Ci salutavano ormai come se ci conoscessimo da sempre. Le loro voci erano ampliate dal vuoto e dal silenzio dei vicoli. Come sopra un palcoscenico.
La sera andavo spesso al Bairro Alto. Alla solita trattoria con quattro piccoli tavoli. Il nome non me lo ricordo. L’anno scorso vidi che non c’era più. Il cameriere parlava italiano e così potevo intrattenermi a parlare del Milan e del Benfica e del nuovo Portogallo del socialista Mario Soares. Mangiavo lenticchie con gamberi. E sarde arrosto con contorno di pomodori e cipolla cruda. Il vino rigorosamente rosso era dell’Alentejo. La regione a sud del fiume Tago. Un vino che sentivo come il vino rosso del Vesuvio.
Le spiagge di Cabo de Roca, a nord di Lisbona erano avvolte da un grande silenzio. Solo le onde che entrano sulla sabbia si sentivano. Cavalloni pazzi sopra una irreale realtà. Le spiagge erano ideali per stare al sole e alla brezza dell’oceano. I ragazzi venivano da ogni parte del mondo per fare windsurf. Io sdraiato sulla sabbia scrivevo versi e pensieri anarchici. Affittavo una moto a Cascais e viaggiavo ai bordi dell’oceano. A volte arrivavo fino a Obidos da un amica dove mi fermavo la notte. Lei abitava in un piccolo castello. Al mattino l’aiutavo nell’orto. Camminavamo col suo cane Nasrin tra le spiagge di Obidos e le scogliere. Fino a che non incontravamo gli scogli e poter rubare al mare qualche patella.
Qualche anno dopo anche il mio cane si sarebbe chiamato Nasrin. Alle spalle delle spiagge ci stavano quasi sempre dei canneti a proteggere orti di fortuna, ma ben tenuti. Il vento sbatteva le canne e un suono mediterraneo ci entrava nell’anima.
Capo de Roca è l’estrema punta dell’Europa sull’oceano Atlantico. Uno sperone di roccia che può inquietare ma anche liberare.
AQUI ONDE A TERRA SE ACABA E O MAR COMEÇA. In italiano Qui dove la terra finisce e il mare comincia. È scritto grande sopra un obelisco di pietra. La frase appartiene al romanziere portoghese Luis de-Camoes. Autore del romanzo storico I lusiadi.
Sulle spiagge il vento di brezza arrivava nel tardi pomeriggio. Mi adagiavo sulla calda sabbia. E affondavo le mani e i piedi. Spesso mi addormentavo. Era l’ora che il sole alto illuminava di luce calda. La sabbia nei calzini me la portavo fino a sera. Così mi capita oggi a Mogador. Lungo il Mediterraneo la sabbia la portiamo con noi nelle scarpe e nelle tasche fin da bambini.
Sulle rive del Tago ci passavo di solito al mattino. Qui al sole e alla bianca luce dell’Atlantico preferivo leggere Saramago. Con me ci stava sempre qualche passero a mangiare sul tavolo all’aperto.
Ora a casa possiedo tutto quello che di Pessoa è stato tradotto in italiano. Naturalmente oltre alla critica letteraria di Antonio Tabucchi e Maria de Lancaster.
A volte andavo nella libreria Bertrand in Rua Garrett. Una vecchia libreria dove si sente ancora l’odore della carta e del legno scuro degli scaffali. E si sta in silenzio. Qui vado a consultare vecchi libri di fotografie di Lisbona e cerco di imparare un minimo di portoghese con dei corsi veloci. Da Bertrand ci è passata tutta la letteratura portoghese ed europea. Qui ho scoperto il poeta e narratore portoghese Mario de Sà-Carneiro, morto in esilio volontario a Parigi. Fu amico di Pessoa e anche lui collaborò alla rivista dell’avanguardia portoghese Orpheu. Sà-Carneiro mi ha affascinato subito. Mi ha rapito la sua vita e la sua poesia. Mi feci arrivare da Napoli l’edizione italiana.
Al mercato dell’usato della Feira da Ladra al Campo de Santa Clara ci andavo la domenica mattina. Ci trovavo le facce di gente che arrivava da ogni parte del mondo. Soprattutto dall’Africa occidentale. Alla Feira da Ladra si può trovare di tutto. Ci compravo pentole e piatti per la casa-rifugio di Ponza. Porcellane e vecchie mattonelle. Tutto rigorosamente vecchio.
Mi comprai una vecchia valigia rossa e un orologio da tasca funzionante. Mi ricordava quello di mio nonno. Ogni cosa deve avere una storia pensavo. Ed io voglio continuare a dare la vita alle cose. I segni del tempo devono essere visibili. La decadenza deve manifestarsi per emozionare e dare vita. Deve raccontare la vita vissuta.
Abitare la decadenza è abitare un pezzo di storia in cui l’anima vive felice. L’anima si allieta nella pochezza delle cose e nelle sue essenze. Questo vuol dire conservare gli attimi del passato. E la memoria porta quel sentimento di gratitudine che solo il poco può lasciare. La decadenza è la casa della poesia. Ogni oggetto deve raccontare la sua storia. Il passato è la strada.
Mi piacciono i bambini che le mamme d’Africa qui portano in dei sacchi di cotone coloratissimi. Stanno avvolti al loro petto o alle spalle. A volte si intravedono due piccoli occhi profondi che iniziano a guardare il mondo.
Il libro di Sa-Carneiro fu spiazzante. Lo reputo un miracolo. Il libro non mi lascia più. Mi coinvolse totalmente, che ripetevo in portoghese alcuni versi mentre camminavo. Fece parte del mio corpo, dell’anima, della mente. Della mia estetica di oggi. A Lisbona nacque l’idea che avrei scritto versi di Sa-Carneiro sulle pareti della casa-rifugio a Ponza. Quei versi erano diventati la carne del mio corpo. Così nacque l’idea di una casa libro. Un po’ sulle orme di Bruce Chatwin in Patagonia. Una casa che sarebbe vissuta di memoria. Bassa fatta di legno al riparo di tutte le tempeste. Dove ci avrei portato il mondo e la donna che amo.
In albergo a Lisbona scrissi un verso di Sa-Carneiro sullo specchio del bagno con del rossetto da labbra. Lo chiesi gentilmente alla signora dell’albergo che prepara la camera. La signora Teresa era molto gentile. Mi sentivo quasi adottato. Si prese cura di me. Pensava che io fossi un vedovo. Mi fece capire come dispiaciuta di quel mio stare da solo. Le raccontai che questo era un tempo che volevo essere da solo e vivere una nuova dimensione. Che ero venuto a Lisbona per vivere un’esperienza portoghese letteraria. Volevo essere un uomo di Fernando Pessoa. Non so quanto Teresa abbia capito con il mio portoghese. So che ero trattato come un figlio.
A Lisbona mi sentivo un poeta vagabondo, in cerca di una perduta libertà. E anche una perduta patria e stato di diritto dopo che nel 1992, una classe politica incapace e corrotta aveva venduto l’Italia e gli italiani agli interessi dei poteri liberisti atlantisti. Ma io non ci stavo a questo colpo di Stato silenzioso in punta di piedi. Niente mi apparteneva più. A niente appartenevo. Se non a un sentimento di anarchia. Chiedevo asilo al Portogallo. Al mondo.
Ma la vita a Lisbona era anche per riprendere la capacità di saper stare da solo. Chi sa stare da solo può stare con qualcuno. E di mettere l’amore al centro della vita. Ero venuto a vivere un periodo che non sapevo quanto sarebbe durato. Libero per le strade del Portogallo. Amavo oziare in questo clima pieno di incanto. In questa terra mite me ne stavo a contemplare la vita lungo i viali e nelle piazze.
La sera quando il mondo si chiudevo dentro se stesso, e il pensiero non era turbato dalle vicissitudini, cenavo in una trattoria della città pombalina dove si riunivano i vecchi che vivevano da soli. Si mangiava con molto poco. Cenavo da solo con chi cenava da solo. Dopo qualche sera. Quando entravo qualcuno mi chiamava il poeta della libertà. Quei vecchi raccontavano tanta nostalgia. Quanta storia avevano da dire. La maggior parte erano vecchi marinai che vivevano di una pensione sociale. La politica del socialista Mario Soares li blindava. Poi lentamente tornavo a casa. Dopo aver lasciato questi vecchi a guardare la televisione.
Al ritorno in albergo spesso ero preso da un senso di drammatica solitudine. Ci sono molte solitudini pensavo. Ma alla fine stanno tutte abbracciate. Lisbona è una città di poeti. I poeti sono solitari. Quando Lisbona si addormentava mi sentivo solo. Ma resistevo, dovevo resistere. Finché non iniziai a conoscere qualcuno. Allora la sera ero spesso a cena da Rui. Qualche volta rimanevo a dormire. Oggi non vado più in albergo, sono ospite fisso a casa sua e di Filipa. O affitto una casa.
A Lisbona avevo la sensazione di essere in un luogo fuori dal dispotismo del denaro e dalla barbaria di questo sistema. Qualcuno qui si accontentava della vita. Io mi accontento della mia vita. E senza dover dar conto alle perdute menti del perbenismo. Una vita agra.
Mi piaceva vivere a Lisbona. Sentivo Lisbona, la città come la vita stessa. La sua luce, il silenzio e quella malinconia creatrice che emana. Questa città profuma di cucinato e di carretti di fiori e di caldarroste. Ovunque si sentiva una melodia, e l’odore del sale dall’oceano. In portoghese la maresia.
Il Fado arrivava dalle finestre della città. La musica che canta il destino. Un canto vergine e primitivo che viene dalle profonde oscurità dell’anima.
Amo Lisbona come si può amare una donna per tutta la vita. Mi ripetevo. Lisbona mi appariva come una resurrezione. Stavo nella vita.
Anche a Essaouira cammino con qualunque tempo. Per me il tempo non è il clima. Un particolare clima può essere accolto con piacere perché si conosce quello contrario. E così viceversa. Il clima ci piace perché conosciamo tutti i clima. Questo lo lessi da Raymond Carver. Carver mi fece capire perché un clima mi piace. Perché mi da compagnia, avventura, fuoco, freddo. Mi fa stare nella vita. Come le braccia di una donna. A cui devo raccontare.
La fede è solo nell’amore, nella bellezza . L’amore è l’unico miracolo. È poesia. Iniziazione primitiva. Rinascita. Una poesia è sempre incompiuta.
Oggi Essaouira così mi tiene. Simile a Lisbona. Una continua resurrezione. La città lascia sognare. Io e lei innamorati perennemente dell’amore.
Non voglio partire. Devo trattenermi ancora a Mogador. Mogador fa di me ciò che il Fato ha predetto. Fa male questo tempo a venire. Cammino con la bellezza e sarò felice. Cantavano i Navajo, prima che li sterminavano.