Alle battute finali anche il processo principale scaturito dall’inchiesta “Alba Pontina”, relativa ai Di Silvio di Campo Boario e all’ipotesi che abbiano costituito un’associazione per delinquere di stampo mafioso e un’organizzazione criminale impegnata nel traffico di cocaina, marijuana e hashish, compiendo numerose estorsioni con modalità mafiose ai danni di imprenditori, commercianti, commercialisti e avvocati, infiltrandosi nelle competizioni politiche e ricorrendo a intestazioni fittizie di beni.
I pm Luigia Spinelli e Claudio De Lazzaro, hanno chiesto al Tribunale di Latina, al termine della loro requisitoria, le condanne degli otto imputati, per un totale di cento anni esatti di carcere.
Chiesti 25 anni di reclusione per il presunto boss Armando Di Silvio detto Lallà, 15 anni per la moglie Sabina De Rosa detta Purì, 11 anni per Francesca De Rosa detta Gioia, Genoveffa Sara e Angela Di Silvio detta Stella, sei per Giulia Di Silvio e Tiziano Cesari, e 15 anni per Federico Arcieri, detto Ico.
Un processo scaturito dalle indagini svolte dalla quadra mobile di Latina e che poggia, tra l’altro, su numerose intercettazioni, testimonianze e dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Renato Pugliese, figlio di Costantino Cha Cha Di Silvio, a capo dell’organizzazione criminale sgominata con l’inchiesta Dont’ Touch, e Agostino Riccardo.
Si tornerà in aula il 22 giugno, per le arringhe delle parti civili e delle difese.
Già condannati invece per mafia, anche in appello, i nove imputati in “Alba Pontina” che hanno scelto di essere giudicati con rito abbreviato.
“L’associazione di cui hanno fatto parte i Di Silvio – hanno evidenziato i giudici di secondo grado nelle motivazioni di tale sentenza – deve definirsi mafiosa in quanto sono sussistenti tutti i requisiti ritenuti dalla giurisprudenza di legittimità essenziali“.
Significative in tal senso vengono considerate le parole di una delle vittime di estorsioni: “Non è che stai a parlà co gente normale, non è che è il delinquente, questi so un’etnia, so duecento, levi due, ce ne stanno altri due dietro”.
Per i giudici, tra l’altro, guardando ai fatti del 2010, “desta sconcerto che quei fatti non siano stati ritenuti aggravati da un metodo mafioso e che l’associazione non sia stata qualificata come associazione mafiosa in presenza di reati di estorsione e usura, intimidazioni violente, tentati omicidi, reati in materia di armi, scorrerie armate sul territorio di Latina tra bande contrapposte”.
“Gli imputati – aggiunge la Corte d’Appello riferendosi ai Di Silvio – hanno sempre agito manifestamente, senza adottare alcuna cautela nei confronti di persone che li conoscevano, ostentando la loro appartenenza ad un gruppo criminale e tale ostentazione di sicurezza di impunità è significativo indice di mafiosità perché presuppone la certezza dell’omertà delle vittime e del loro assoggettamento”.
Valutazioni che hanno portato a condanne per un totale di 50 anni di carcere a carico dei nove imputati: dodici anni e mezzo di reclusione per Gianluca Di Silvio, detto Bruno, 11 anni, 10 mesi e 10 giorni per Samuele e 10 anni e 8 mesi per Ferdinando “Pupetto”, figli di Armando “Lallà”, tre anni e 4 mesi per Gianfranco Mastracci, 4 anni e 20 giorni per Daniele “Canarino” Sicignano, 2 anni e 2 mesi per Valentina Travali, 2 anni e 4 mesi per Mohamed Jandoubi e Hacene Hassan Ounissi, e un anno e 4 mesi per Daniele Coppi.
“Questa è la storia di Latina degli ultimi venti anni”, aveva specificato nelle motivazioni della sentenza di primo grado il giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Roma, Annalisa Marzano.