Andromeda, arrivano le condanne definitive per i Di Silvio

Giuseppe Pasquale Di Silvio

Arrivano le condanne definitive anche per il processo “Andromeda”, il primo dopo la cosiddetta guerra criminale tra rom e non rom nel 2010 in cui venne contestato ai Di Silvio di aver costituito un’associazione per delinquere.

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibili i ricorsi dei fratelli Giuseppe Pasquale e Samuele Di Silvio e dello zio dei due, Ferdinando Di Silvio detto Gianni.


Il 25 gennaio di dieci anni fa, a Latina, subì un attentato e scampò miracolosamente alla morte Carmine Ciarelli, esponente dell’omonima famiglia di origine nomade.

Nell’arco delle successive 24 ore vennero uccisi Massimiliano Moro e Fabio Buonamano.

Un’escalation criminale che venne inquadrata dagli investigatori come una guerra tra rom e non rom per ottenere il monopolio sugli affari illeciti nel capoluogo pontino.

Le indagini portarono così gli inquirenti ad accusare alcuni componenti della famiglia di origine nomade Di Silvio di aver costituito un’associazione per delinquere e si aprì il processo denominato “Andromeda”, a cui seguì poi il più ampio processo “Caronte”.

Il Tribunale di Latina condannò Giuseppe Pasquale, Armando, Ferdinando e Samuele Di Silvio rispettivamente a 6 anni e 8 mesi di reclusione, 3 anni, 3 anni, e 1 anno e 10 mesi, ritenendo che avessero appunto dato vita a un’organizzazione criminale.

In appello poi tutti assolti dal reato associativo.

Impugnata la sentenza d’appello dal procuratore generale, la Cassazione ha però accolto il ricorso per Armando, Giuseppe Pasquale, Samuele e Ferdinando Di Silvio.

Nel processo bis d’appello è stato quindi prosciolto per intervenuta prescrizione Armando Di Silvio, detto Lallà, attualmente imputato nel processo “Alba Pontina” e ritenuto al vertice di un’associazione per delinquere di stampo mafioso, e confermate le condanne per i figli Giuseppe Pasquale e Samuele e per il fratello Ferdinando.

Una sentenza nuovamente contestata dai tre imputati, ma avallata in via definitiva dalla Suprema Corte.

Per i giudici i Di Silvio avevano costituito all’epoca un’associazione per delinquere finalizzata alla detenzione di armi, l’usura, l’estorsione, gli omicidi, i tentati omicidi e l’incendio.

Accusa quest’ultima riferita alle fiamme appiccate il 17 agosto 2010 al bar “Giulia”, di proprietà della compagna di Cristian Liuzzi.

Accuse che per la stessa Cassazione sono state confermate dalle intercettazioni ambientali compiute in carcere, dove erano detenuti Giuseppe Pasquale e Costantino Di Silvio.

“L’inequivoco contenuto dei colloqui – viene specificato nella sentenza – fotografa l’esistenza di una struttura finalizzata alla commissione di una serie indeterminata di delitti, a cominciare dalla conversazione del 18 agosto 2010 relativa all’incendio del bar “Giulia”, passando attraverso la descrizione di episodi – il pestaggio in carcere di un avversario di Giuseppe Pasquale, la necessità e conseguente pianificazione di un episodio omicidiario nei confronti di tale Maurizio, proposito che costituisce oggetto, in danno di altro soggetto, anche del successivo colloquio del 25 agosto – delitti che vengono programmati e pianificati nel corso dei colloqui stessi. Nei colloqui intercettati Giuseppe Pasquale Salvatore e i congiunti di volta in volta interessati discutono delle modalità e caratteristiche delle attività di spaccio, usura ed estorsione che il gruppo ha in corso”.