Permaflex, il primo grande fallimento a Latina, finito in un limbo giudiziario

Il processo per il crac Permaflex è in un limbo.

Sono passati quattro anni e mezzo dalla sentenza emessa dal Tribunale di Latina, che ha in parte assolto nel merito e in parte prosciolto per intervenuta prescrizione tutti gli imputati, accusati di aver consumato attorno all’azienda di materassi una bancarotta colossale.


Il pubblico ministero Cristina Pigozzo, che aveva chiesto sette condanne, per un totale di oltre 25 anni di reclusione, e una sola assoluzione, ha impugnato subito quel provvedimento.

Ma la Corte d’Appello di Roma deve ancora fissare la prima udienza.

Un processo tormentato quello Permaflex, frutto delle prime indagini della Procura della Repubblica di Latina sul gruppo Veneruso e su un fallimento di quelle dimensioni.

Nei successivi venti anni dopo quel crac ne sono seguiti diversi altri del genere, tutti riconducibili agli stessi gruppi e tutti caratterizzati dalla costante presenza di determinati professionisti e di determinati schemi, con la perdita di circa duemila posti di lavoro.

Particolari che hanno portato sempre la Procura ad aprire una maxi inchiesta, che langue però ugualmente tra gli uffici di via Ezio e quelli dei gip, tra indagini chiuse, richieste di archiviazione e approfondimenti.

L’azienda produttrice dei materassi, noti con il simbolo dell’omino che dorme, è stata una realtà fiorente, fondata dall’imprenditore toscano Giovanni Pofferi, l’inventore del materasso a molle, e poi trapiantata a Frosinone, con uno stabilimento guidato da Licio Gelli, il venerabile maestro della loggia massonica P2.

La società è stata poi ceduta da Pofferi all’imprenditore Raffaele Veneruso, di Napoli, e da quest’ultimo al figlio Alberto.

Dopo appena un anno da tale cambio al vertice, la società entrò in crisi, nel 1999 la sede legale venne spostata da Frosinone a Latina e nel 2002, dopo lunga battaglia, venne dichiarata fallita dal Tribunale pontino.

Su quel crac venne subito aperta un’inchiesta e gli inquirenti ritennero che attorno al fallimento si fosse consumata una bancarotta colossale, con tanto di triangolazioni con società estere e notevoli somme finite in Svizzera.

Finirono a giudizio manager e componenti del collegio sindacale: Alberto Veneruso, Giancarlo Nastro, Giuseppe Maranghi, Giorgio Di Mare, Giuseppe Vitiello, Marco Cimino, Maurizio Genovese e Roberto Santoro.

Il processo è stato particolarmente tormentato, tra sostituzioni di giudici e rinvii.

Alla fine il pm Pigozzo ha chiesto condanne a 5 anni di reclusione per Veneruso, a 2 anni per Nastro, a 5 anni per Maranghi, a 3 anni per Santoro, e a 3 anni e mezzo per Di Mare, Cimino e Genovese, chiedendo l’assoluzione solo per Vitiello.

Ma, complice appunto la prescrizione, il Tribunale ha in parte assolto e in parte prosciolto tutti.

Per il pubblico ministero un errore, ritenendo soprattutto che fosse stata provata la condotta distrattiva di circa 2,8 miliardi di lire realizzata da Veneruso e Maranghi, fratello dell’allora braccio destro di Enrico Cuccia, presidente di Mediobanca, nell’ambito della cessione di quote della Flex nelle società Somatral e Somatral commerce per il valore di 3,5 miliardi, avendo inscritto in contabilità solo la somma quale ricavato della vendita di 700 milioni.

Tutto, secondo il magistrato, chiaro alla luce dei documenti raccolti e dell’interrogatorio di Nastro.

In attesa che la Corte d’Appello di Roma esamini la vicenda e visto quanto accaduto nei successivi venti anni, con il gruppo Veneruso e non solo, vi sono però anche altri aspetti della storia di Permaflex che l’hanno resa oggetto di successive analisi.

Subito dopo l’acquisto dell’azienda di materassi Veneruso denunciò infatti Pofferi per truffa e falso in bilancio, contestando in tal modo il pagamento residuo di cinque miliardi di lire e dando battaglia sulla proprietà delle società controllate francesi, la Scea Mas d’Icard e la Scea Mas d’Icard Camargue.

L’imprenditore napoletano costituì quindi in Lussemburgo la Europartimmo s.a., in cui fece affluire un miliardo di lire, e il 29 ottobre 1998 le affidò la licenza d’uso esclusiva dei marchi aziendali Permaflex e Ondaflex, stringendo allo stesso tempo accordi con il gruppo Eminflex della famiglia catanese Commendatore, trasferitasi a Canaletti di Budrio, in provincia di Bologna, con Giacomo Riina come contabile, parente di Totò Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra.

E alla Eminflex venne infine ceduta la nuda proprietà dei marchi in cambio di quattro miliardi di lire, acquistati dal gruppo Commendatore tramite la controllata Eminflex Madeira Servicos e Investimentos Lda, con sede a Madeira.

Oltre all’operazione sui marchi, caratterizzata anche da altri passaggi, prima di attivare la procedura di concordato, che come accadrà negli anni successivi per tutta un’altra serie di società anche per Permaflex si è tradotta in un modo per prendere tempo prima della dichiarazione di fallimento, la Permaflex cedette anche le proprie partecipazioni nella controllata tunisina Somatral s.a., ufficialmente al prezzo di 700 milioni di lire, ma secondo gli inquirenti a tre miliardi e mezzo, come emerso dai documenti depositati dalle società tunisine in sede di revocatoria.

E un miliardo sarebbe stato oggetto di un bonifico del 6 aprile 1999 partito dalla Banque Agricole de Tunis e diretto alla banca UBS di Basilea a favore della Flight Equipment & Market Ltd Tortola B.V.I., con sede nelle Isole Vergini Britanniche, controllata, tramite trustee fiduciario elvetico, dai beneficiari Alberto e Carmela Veneruso, come emerso nelle successive indagini sui fallimenti Agw, Alfer e Meccano.

Il concordato, nonostante la Permaflex avesse sede a Frosinone e presso quel Tribunale fossero state depositate diverse istanze di fallimento, venne presentato a Latina dove, senza troppi problemi, in due giorni venne ammesso.

Il 29 dicembre 1999, in Lussemburgo, il gruppo Eminflex, tramite F&R International s.a., consegnò quindi al gruppo Veneruso, tramite la Air Trade Ltd, 9 miliardi e mezzo di lire, il vero valore dei marchi, distratto dalla Permaflex.

Due professionisti impegnati nella gestione della proceduta incassarono 250 milioni di vecchie lire e, tra una battaglia e l’altra all’interno del palazzo di giustizia, con un giudice fallimentare costretto anche a rinunciare all’incarico e un altro che si occupava della delicata sezione che si trovò larga parte della procedura attivata mentre lui era in ferie, si arrivò alla fine al più che scontato fallimento.

Ma con le casse aziendali ormai vuote.

Vicende che dovrebbero chiarire da un lato la Procura di Latina e dall’altro la Corte d’appello e su cui invece, a distanza di diciotto anni dalla decisione dei giudici di staccare la spina all’azienda di materassi, chiarezza ancora non c’è.