Don’t touch, condanna confermata per Gianluca Tuma

Don't Touch: una fase degli arresti a ottobre 2015

Nessuno sconto per Tuma. Sostenendo che i giudici della II sezione penale della Corte di Cassazione avessero sbagliato esaminando il suo ricorso, il 49enne di Latina, accusato di intestazione fittizia di beni nell’inchiesta Don’t touch e ritenuto dagli inquirenti il volto imprenditoriale del clan Di Silvio, ha presentato una nuova impugnazione alla Suprema Corte, chiedendo di rivedere la sentenza con cui è stato condannato in via definitiva a tre anni di reclusione. Le motivazioni su cui Gianluca Tuma ha fondato il nuovo ricorso non hanno però minimamente convinto gli ermellini, che hanno dichiarato lo stesso inammissibile e condannato il pontino a pagare le spese processuali e a versare quattromila euro alla Cassa delle Ammende.

Era l’autunno del 2015 quando la squadra mobile eseguì, nell’ambito dell’inchiesta denominata Don’t touch, 24 arresti.


Gli inquirenti sostennero che Costantino Cha Cha Di Silvio avesse messo su un’associazione per delinquere finalizzata in particolare alle estorsioni, creando con i proventi degli illeciti un impero imprenditoriale. Ipotesi confermate poi nel corso del processo, con condanne definitive da parte della Cassazione.

Tuma, assolto dall’accusa di essere parte dell’organizzazione criminale, dopo essersi visto anche confiscare il suo patrimonio ha cercato di demolire la stessa sentenza emessa il 17 ottobre 2018 dalla Suprema Corte, relativa appunto alla condanna per intestazione fittizia di beni.

Ha sostenuto che su di lui vi erano stati degli errori relativi a sentenze di condanna “intervenute anche in data successiva rispetto all’ultima richiesta di misura di prevenzione” e sulla prescrizione dei crediti erariali.

Niente da fare. La sentenza ha retto anche a un secondo vaglio della Cassazione.