“Aveva iniziato la causa nel 2015 ed è morto nel 2018. Oggi è arrivata la sentenza del Tribunale di Roma.
Su 10 trasfusioni, 3 non sono risultate controllate e tracciabili. L’ipotesi non remota è che il sangue trasfuso è stato importato negli anni ’80 da paesi del terzo mondo”.
Nel 1983 gli vennero somministrati una decina di flaconi di sangue infetto presso l’ospedale San Camillo di Roma. Allora aveva 44 anni l’uomo di Cisterna di Latina che nel 2013 apprese, 30 anni dopo, di essere stato contagiato dal virus dell’epatite C.
Nel 2015 aveva iniziato con l’avvocato Renato Mattarelli una causa contro il Ministero della Salute per il mancato controllo delle trasfusioni effettuate dal San Camillo – ed è lo stesso avvocato a rendere noto quanto accaduto.
Nel frattempo però l’epatite C, rimasta silente ed asintomatica per decenni, si è trasformata prima in cirrosi epatica e poi in tumore al fegato che nel 2018 ha ucciso l’uomo arrivato a 79 anni nonostante non avesse più il fegato, danneggiato irreparabilmente dal virus che, per almeno 30 anni, ha continuato indisturbato a distruggere la salute del paziente pontino.
A questo primo risarcimento di 700mila euro di oggi per i danni patiti in vita dall’uomo, ma di cui beneficeranno solo gli eredi, seguirà una nuova causa da parte dei prossimi congiunti per l’uccisione del loro parente.
La morte per trasfusioni di sangue infetto dell’uomo di Cisterna è solo l’ennesima che ha origini lontanissime che vanno dalla metà degli anni ’60 alla metà degli anni ’90 quando il sangue per uso trasfusionale non era controllato e in molti casi comprato da paesi esteri dove notoriamente circolavano fra i donatori virus letali come l’HIV, l’HBV e l’HCV che ha ucciso l’uomo di Cisterna.