“Diverse volte, e per diverse vicissitudini di ricerca, ho parlato e scritto della Villa e Chiesa di San Remigio. La prima ad acquistare il terreno sul quale oggi sorge Villa San Remigio è stata la Marchesa Patrizi di Roma. Questa acquistò e unì due fondi diversi, coltivati a frutta, sulla quale realizzò la Villa, su cui già insisteva l’antica Chiesa. La proprietà, adiacente all’omonima fontana romana, fu realizzata nel XVIII secolo e la Villa rimase da allora più o meno inalterata. Un fatto assai curioso avvenne durante la permanenza della Marchesa Patrizi nella Villa. Nel 1790, leggiamo da un memoriale legale (poi pubblicato come atto di giurisprudenza) di Salvatori Zizzi dal titolo “Le Api vendicate”, la Marchesa si imbarcò in una lotta serrata contro l’apicoltura locale.
In questo documento leggiamo della paradossale ”causa” promossa dalla Marchesa in cui fa istanza al tribunale di Gaeta per bandire il possesso delle Api in tutto il distretto del Golfo. La Marchesa sosteneva che le api invadendo i suoi terreni, provocavano danni e causavano la perdita dei frutti. Chiaramente la cosa fu accolta con iniziale ilarità da parte di tutti, conoscendo da millenni che al contrario le api non fanno che giovare a qualsiasi tipo di coltivazione fruttifera. Il problema fu serio, perché quello che a tutti pareva scontato si dovette poi dimostrare ed intrecciare con il difficile percorso legislativo del XVIII secolo, in cui però le ragioni di una Marchesa spesso pesavano di più di quelle degli allevatori. La Patrizi batteva su due punti: punto primo, sosteneva che aveva il diritto di decidere nella sua proprietà cosa o chi dovesse entrare, punto secondo invocava un antichissimo statuto di Gaeta che regolava il possesso di animali in semilibertà (come le colombe, i piccioni, ecc).
Chiaramente, non senza difficoltà, si riuscì a dimostrare che in tutto il mondo le api non possono essere poste in regime “vigilato”; che non si poteva vietarne il possesso; si portarono decine di testimonianze documentali per dimostrare il buon influsso dell’operare delle api sui frutti; e si dimostrò come l’antico statuto di Gaeta invocato fosse in disuso da secoli e che comunque non si poteva applicare alle api. La Marchesa Patrizi perse la sua stramba battaglia, e di li a poco dovette occuparsi di problemi ben più seri. La famiglia si coprì di debiti ed alla fine la Villa, per saldare molti creditori, fu messa all’asta assieme a tutto il patrimonio dei Patrizi. Come curatore di tutta la procedura fallimentare fu nominato Don Carlo Lignì, Principe di Caposele. Lo stesso si fece autorizzare dal tribunale, paventando la difficoltà della vendita della Villa, a soddisfare un creditore con la cessione della stessa.
Il tribunale autorizzò tale passaggio, e fu così che il Cavaliere Filippo Albito Piccolomini venne in possesso di Villa San Remigio. Segnaliamo tuttavia che il valore della Villa era molto superiore al debito, e a dovere di cronaca dobbiamo anche dire che il Cavaliere Albito Piccolomini era un grande amico del Principe di Caposele, che offrì così un gran favore al suo sodale. La Marchesa prima, suo figlio poi, cercarono in tutti i modi e con infinite cause legali, di tornare in possesso della Villa ma non ci riuscirono mai. Il Cavalier Filippo Albito Piccolomini alla sua morte fu sepolto con la moglie, Teresa Postiglione, nella Chiesa di San Remigio, dove ancora oggi riposa. Morendo senza figli la proprietà passò a suo nipote il Duca Paolo Gattola, e da questo a sua figlia fino ai Patroni Griffi, Conti di Calvi”.
Articolo di Daniele E. Iadicicco, presidente dell’Associazione “Terraurunca”.
