I sei arresti per l’omicidio di “don” Patrizio Barlone (Avola Salvatore, 43enne di Torre del Greco (NA); Avola Vincenza, 36enne di Torre del Greco; Imperato Antonio, 56enne di Ercolano (NA); Marasco Carmine, 49enne di Torre del Greco; Quadrino Aldo, 53enne di Fondi; Scarallo Salvatore, 50enne di Napoli) partono da lontano, con un quadro generale costituito da tanti tasselli differenti. Un ruolo imprescindibile lo ha ovviamente avuto il fiuto investigativo degli uomini dell’Arma, che per settimane hanno lavorato nel massimo riserbo, mettendo al proprio posto ogni tessera, ricostruendo ogni possibile scenario. Indagini vecchio stampo corroborate dalla tecnologia: gli accertamenti degli specialisti del Ris di Roma; quelli sui tabulati telefonici; le intercettazioni; le verifiche di laboratorio del medico legale Filippo Milano; i frame catturati dall’occhio elettronico della Stazione dei carabinieri tanto osteggiato dalla vittima.
Ma c’è dell’altro. Determinate risultanze investigative sono state indirizzate o hanno trovato conferma anche grazie alle parole di una “gola profonda”. Una sorta di superteste, il settimo indagato. Si tratta di un monticellano che, quando l’agguato poi finito in tragedia era ancora allo stato embrionale, venne avvicinato da qualcuno del gruppo di arrestati. Si voleva coinvolgerlo nel raid. Ne è uscito fuori giusto in tempo. Offerta rispedita al mittente. E nel contempo, involontariamente, il modo di conoscere protagonisti e dettagli. Un peso troppo grosso da sostenere, considerando gli esiti di quella che è stata inquadrata come una rapina finita nel peggiore dei modi. Così che un paio di mesi fa l’uomo decide di rivolgersi a un legale. Per arrivare ai carabinieri, il passo è stato breve: in una lunga serata passata presso la Compagnia di Terracina, un colloquio secretato che ha sciolto dubbi e guidato ulteriormente la lente degli investigatori. Contribuendo a giungere ai tasselli finali del puzzle.
L’OCCHIO ELETTRONICO CHE NON DOVEVA VEDERE
Tra le chiavi di volta dell’indagine, come avevamo anticipato nei mesi scorsi, spicca una telecamera che non doveva esserci. Almeno secondo l’ex diacono e falso prete brutalmente assassinato, che per togliersi di torno uno dei due occhi elettronici della vicinissima Stazione dei carabinieri la scorsa estate aveva fatto fuoco e fiamme. Lo voleva disattivato, o perlomeno spostato: troppo vicino alla porta della sua abitazione, sosteneva. Una cosa irriguardosa, per un “uomo di chiesa”. Tanto più che “don” Patrizio aveva il crescente pallino della riservatezza. Che fare per far valere le proprie istanze? Ovviamente andare ai piani alti, lui che, al di là delle varie entrature in Vaticano, si era sempre vantato di amicizie altolocate anche nell’Arma. Ed ecco allora, ad agosto, Patrizio Barlone arrivare fino agli uffici del comandante provinciale dei carabinieri Giovanni De Chiara e del Garante della privacy. Di volta in volta, con la consolidata abitudine di sempre: col collarino ecclesiastico d’ordinanza in bella vista, spacciandosi per prete pur non essendolo mai stato. Circostanza che lo aveva portato dritto ad una denuncia. Avendola ad ogni modo vinta: alla fine, don o meno, la visuale della telecamera che affacciava verso il civico 11 di via Roma era stata in effetti corretta.
Evidentemente non molto, però. Ironia della sorte, è stato proprio quell’obiettivo indigesto che ha colto alcuni dei principali protagonisti del fatto di sangue la sera dell’8 febbraio. Quattro figure che in volto non si riconoscevano, dopo i dovuti accertamenti associate al 43enne Salvatore Avola, alla 36enne sorella Vincenza, al 56enne Antonio Imperato e al 49enne Carmine Marasco. I nomi ancora non c’erano, la dinamica dell’accaduto, concentrata in un breve lasso di tempo che parte da quando erano circa le 19,20, appariva abbastanza chiara: alla porta della vittima si presenta la donna del gruppo di campani, cui Barlone apre; subito dopo, un veloce viavai; la segue prima un uomo, poi altri due; borsone alla mano – prima non c’era – se ne vanno intorno alle 20. Una staffetta di morte restituita dall’occhio “molesto”.
LA FEDE E IL DIO DENARO
Discusso, controverso. Un uomo perennemente in bilico tra la profonda vocazione cristiana sempre sostenuta e l’amore, altrettanto profondo, per il dio denaro. Una figura complessa, quella di “don” Patrizio, come ha sempre amato farsi chiamare il 61enne di Monte San Biagio ucciso, per anni insegnante di religione a cassino. Prete mancato ed ex diacono, fino a pochi giorni prima di morire Barlone girava ancora con il collarino ecclesiastico, ma era stato da anni sospeso a divinis ed interdetto nelle esercizio di qualsiasi Ministero della Curia per i suoi guai con la giustizia, legati in particolare a un arresto e al conseguente processo per usura. Un’onta d’inizio 2000 che segnò l’inizio della sua fase calante. O perlomeno vide la vittima allontanarsi progressivamente dalla vita della comunità monticellana, dov’era nato e cresciuto. Dopo quel periodo buio, ossessionato dalla privacy, Barlone si faceva vedere sempre più di rado.
Un corpo estraneo, lui che nei tempi del massimo fulgore – quando aveva amicizie altolocate in Vaticano ed era di casa allo Ior – non perdeva occasione per presenziare in prima fila alle festività paesane, soprattutto quelle in onore del santo patrono, cui era devotissimo. Indicativo, a riguardo, il libro a sua firma intitolato “San Biagio, vescovo di Sebaste in Armenia martire. Storia, tradizione, arte e folklore”, pubblicato sul finire degli anni Ottanta. Non è mai stato sacerdote, eppure la vocazione di “don” Patrizio doveva essere forte. Lo dimostra anche quella volta che, fedele a un carattere “tempestoso”, si presentò da un legale della zona inviperito: voleva denunciare l’allora papa Joseph Ratzinger per una presa di posizione di tipo teologico. Dio, fede e filosofia, dunque. Ma anche la passione per le ben più terrene barche e mazzette di denaro. Andata a sfumare per i natanti – la sua ultima barca era stata messa in vendita un paio di estati fa “per beneficenza”, come recitavano gli annunci di vendita – rimasta intatta per i soldi. Come dimostra la gran mole di documenti, per la maggior parte manoscritti con nomi su nomi, rinvenuti dai carabinieri nel corso dei sopralluoghi nell’appartamento teatro del delitto. O i circa 40mila euro in contanti occultati nella medesima abitazione, riposti in maniera certosina nelle gambe di alcuni pantaloni.
QUADRINO, L’IMPRENDITORE “INVISIBILE”
Una persona come tante, con una caratura criminale finora ritenuta ai minimi termini. Mite, educata, gentile. Dal tono di voce pacato. “Invisibile”. E’ così che Aldo Quadrino, incensurato, viene descritto da chi lo conosce.
Caratteri, stili e modi di vivere per lunghi versi diametralmente opposti, dunque, per la vittima e il presunto mandante della rapina finita male. Unico elemento ad accumunare “don” Patrizio Barlone e il 53enne fondano arrestato lunedì notte in un’abitazione lungo la Flacca, all’apparenza, il denaro. Un rapporto costante, imprescindibile per entrambi. Con una differenza: all’ex diacono monticellano i soldi non erano mai mancati, per il piccolo imprenditore fondano erano sempre troppo pochi. Quadrino, spesso braccato dalle banche, era da anni oberato da debiti e difficoltà economico-lavorative. Arrancava giorno dopo giorno. A lungo la sua fonte principale di reddito è stata un noto frantoio in via Casetta Ugo, cui, oltre all’attività di mediatore nel settore oleario, l’uomo aveva man mano affiancato quella di corriere ortofrutticolo a Roma, dove gestisce il banco di famiglia. Sulla sua testa, oltre alla carenza di liquidità, la spada di Damocle rappresentata da un processo pendente a Milano per bancarotta fraudolenta, legato al fallimento di una vecchia cooperativa. Incidenti di percorso, pensieri, necessità. E un prestito di almeno 25mila euro ricevuto dallo scomparso Barlone, debito testimoniato da uno dei “libri contabili” trovati nelle disponibilità della vittima, seppure i suoi legali – Giulio Mastrobattista ed Atena Agresti – sostengono fosse già stato saldato in due tranche.