Incontri con la storia: Amedeo Gabrielli

Amedeo Gabrielli

di Gianfranco Mingione

È stato uno dei primi abitanti dell’Agro Pontino. Qui, giovanissimo, aprì gli occhi su una nuova vita, su una nuova speranza.


Rispetto, lavoro, famiglia, unità. Quando conosco quest’uomo di “antiche memorie”, la mia mente intuisce subito che la vita è qualcosa di sensazionale, di unico, in grado di regalarci incontri importanti e straordinariamente formativi. Mi ha aperto le porte della sua casa e dei suoi ricordi. Con gentilezza e modi signorili ha fatto vibrare la rotonda tavola attorno alla quale eravamo seduti. Oggi conserva ancora bene le sue forti spalle e i suoi occhi hanno visto scorrere eventi locali e internazionali che gli sono valsi, per il suo contributo, una Croce al Merito di Guerra e il riconoscimento di Cavaliere della Repubblica Italiana. Le sue storie attraversano gran parte del Novecento e trasudano di parole importanti, quali: rispetto, lavoro, famiglia, unità. Concetti, valori che prendeono linfa soprattutto dal suo essere legato ad una famiglia di antica tradizione alpina e che oggi forse si vivono diversamente perché i tempi, è pur vero, sono cambiati. Ma è pur vero che se i tempi sono cambiati, l’uomo di oggi è troppo spesso impegnato in una folle spasmodica corsa fuori e dentro il web, senza poi sapere per davvero dove stia andando. La voglia di costruire, la visione di un mondo nuovo da creare, così come la ebbero Amedeo Gabrielli e i suoi contemporanei, oggi a noi manca molto se non del tutto. Dell’uomo di ieri, dell’impresa che ha reso grandi lui ed altri come lui, rimane, sebbene in molti tratti divelta dalle gesta dell’uomo negli anni seguenti, “l’architettura” di una grande impresa. A noi, invece, spetta di decidere se lasciare un’impronta di grandezza o continuare a deterpurare quanto ereditato. La domanda è: Quo vadis uomo d’oggi? Sta a noi rispondere al più presto, prima che sia troppo tardi, senza divisione ideologiche e con la sola volontà di creare un mondo migliore, e semmai ancor più bello di quello lasciatoci in eredità dai nostri avi.

La fine della Grande Guerra, la crisi del ‘29 e l’esodo verso la “Terra Redente”. Dopo la fine della guerra tutte le proprietà degli austriaci non c’erano più e le fabbriche avevano cessato le attività. Gli uomini sono rientrati dalla guerra e si sono trovati senza lavoro. Dove si poteva andare? In Francia e in altri paesi non ci volevano. Le difficoltà erano molte, basti pensare che in alcune famiglie c’erano dieci fratelli che pur avendo voglia di lavorare, non ne avevano la possibilità. Altro che il nord Est di oggi: c’era solo la polenta con l’aringa da mangiare e tanta povertà! Ad un certo punto, si doveva prendere una decisione, e noi, siamo stati scelti per andare nelle terre pontine anche perché mio padre era un’ex reduce della prima guerra mondiale. Combattè sull’Ortigara, la montagna sacra degli Alpini. Non posso non ricordare anche mio nonno che, non volendo rimanere sotto l’Austria, ha combattutto come Cacciatore delle Alpi con Giuseppe Garibaldi per l’unificazione italiana. La nostra è una famiglia di antica tradizione militare e alpina.

Prime impressioni: “Addio valli, addio monti per andare a Littoria siamo pronti”. Ci si voleva tutti bene e c’era la spinta ad andare avanti, ad uscire fuori da quel guscio in cui non c’era la possibilità di sopravvivere. Quando siamo venuti giù, a quelli della mia età, ragazzi di dieci anni e poco più, sembrava di sognare, di essere in un altro mondo. Quando siamo montati sul treno a Bassano, mi sono girato verso il Grappa e i piani dell’Asiago e ho detto: “Addio valli, addio monti per andare a Littoria siamo pronti”. Benché mi sentissi triste nell’abbandonare i luoghi in cui ero cresciuto e che amavo, partivo con un presentimento che a Littoria si poteva sopravvivere, fare qualcosa.

Da Valstagna alla “Nuova America”. Noi siamo partiti dal piccolo paesino di Valstagna, in provincia di Vicenza, alla sera del 12 dicembre 1934 dalla stazione di Carpanè. Siamo arrivati a Terracina il giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre 1934. Qui ci hanno rifocillato in stazione e poi hanno diviso gli uomini da una parte e le donne, i vecchi e i bambini da un’altra parte. Gli uomini hanno aiutato a scaricare i bagagli dal treno e le donne sono state sistemate nei camion, dove c’erano più famiglie. Siamo partiti dalla stazione non sapendo ancora dove saremmo stati sistemati. Quando ero sul camion assieme a tutta la mia famiglia, mi sono avvicinato alla mamma che in quel momento, come una chioccia, ci rassiccurava, pur non sapendo ancora dove saremmo andati. È stato un momento molto forte, uno sgomento che neanche in sei anni di guerra ho provato.

A Borgo Hermada prende corpo la possibilità di una nuova vita. Quando siamo arrivati a Borgo Hermada, abbiamo iniziato a vedere questa grande pianura e abbiamo cominciato a ipotizzare dove fosse la nostra casa. Una pianura grande e spoglia, le strade nuove e bianche, i vicini canali. Le mamme, dopo una prima sensazione di sgomento e incertezza, hanno cambiato volto e iniziato ad avere più forza. Giunti nei poderi abbiamo trovato queste case nuove, è stato uno shock per tutti! Mi madre ci ha fatto fare il segno della croce prima di entrare in casa. “Sento” ancora oggi il profumo della calce che avevano appena steso.

Il miracolo delle mamme. Il primo miracolo è stato fatto dall’ingegneria idraulica, grazie alla quale si è potuta realizzare la bonifica dell’Agro Pontino, penso in particolar modo all’ingegnere Romagnoli. C’è poi da dire che il secondo miracolo è stato realizzato dalle mamme che hanno tirato su tutto dal nulla. Siamo stati forti, testardi e tenaci sia nelle famiglie che nel nostro lavoro e, grazie anche alla tempra data dall’essere alpini, non abbiamo ceduto nemmeno un istante per portare a termine un’impresa che nessuno prima di allora era riuscito a fare: la bonifica della palude pontina.

Da sinistra: Il figlio di Amedeo Gabrielli, Amedeo Gabrielli e la moglie, in basso Maria Pia Mambro
Da sinistra: Il figlio di Amedeo Gabrielli, Amedeo Gabrielli e la moglie, in basso Maria Pia Mambro

La quotidianità di un ragazzo veneto-pontino. Dopo la colazione a base di latte, mi alzavo molto presto al mattino e per raggiungere la scuola a Sabaudia percorrevo, a piedi, otto-dieci chilometri. Nella mia zona hanno inviato solo alpini, per il loro forte senso di gruppo e il loro grande spirito, altrimenti sarebbe stato troppo difficile rimanere in questa terra dove non c’era niente, neanche la luce e tutto doveva crearsi. Sabaudia è un gioiello ma allora non c’erano le comodità di oggi, come i collegamenti e i mezzi, e bisognava recarsi nei centri vicini come Terracina e Priverno. La maggior parte delle persone si doveva così sobbarcare viaggi di trenta-quaranta chilometri a piedi anche perché molti non sapevano andare in bicicletta. Non c’era la ferrovia, tante cose non arrivavano, e gli unici commercianti che potevano vivere erano solo i mulinai perché si doveva portare il grano a macinare.

Il volto buono del Fascismo. La grande cosa che ha fatto il Fascismo è stato coinvolgere le persone giuste. A me non è mai stato detto di far del male a qualcuno bensì di studiare, lavorare e di essere onesto. Questo mi hanno insegnato ed io ho sempre creduto che il Fascismo fosse stato la bella copia del Socialismo, per principio. Le innovazioni e i benefici sociali apportati in quel periodo sono stati tanti: la carta del lavoro del 1923 in cui si stabiliva che gli operai dovevano avere un determinato orario di lavoro e non più lavorare dalla mattina alla sera; si stabilì anche che bisognava versare le “marchette”, i contributi per la pensione e l’assistenza medica per gli operai. Il Ministero dell’Agricoltura fece le tre categorie: ausiliari, mezzadri e i concessionari. E pensare, invece, che mio padre non ha mai preso la pensione, perché non c’era!

Le medaglie di Amedeo Gabrielli
Le medaglie di Amedeo Gabrielli

Il Duce veniva a trebbiare. Era un bersagliere, un uomo che diceva pane al pane e vino al vino, senza mezzi termini. Stava bene in mezzo alle persone, agli operai, gli agricoltori. Grazie a Fatigati, il mio primo maestro, sono diventato balilla e poi balilla moschettiere e ho frequentato a Roma il primo campo Dux. Poi come avanguardista sono stato all’Accademia Fascista di Educazione Fisica a Roma, per poi studiare, a Cori, da cadetto istruttore militare. Quando sono andato nella Polizia Portuaria alla odierna Caserma Piave di Sabaudia, avevo anche il compito di riferire con lui. Il generale della Portuaria, Ettore Muti, mi scelse come suo aiutante. Ricordo poi che Mussolini è venuto tre o quattro volte a Sabaudia, in visita alla Scuola della Milizia Portuaria, che era come la sua guardia e voleva che si facesse il passo romano. Quando arrivava in caserma, i responsabili avevano paura di sbagliare e trasmettavano questa loro paura anche a noi. Io invece me ne fregavo proprio e con sicurezza mi mettevo sull’attenti e accompagnavo il Duce.

(Cartolina disegnata da Daniele Fontana (seconda metà anni trenta-prima metà anni quaranta)

La Guerra a soli ventanni. Noi non si doveva andare in guerra perché non si era armati per affrontarla, fu un’errore. Sono stato scelto tra le migliaia di giovani che avevano fatto la “Marcia della Giovinezza” ma, anziché essere destinato ad uno dei tre campi di Formia, Gaeta e Scauri, fortuna vuole, che io sia stato inviato direttamente a Sabaudia a comandare la Milizia Portuaria. Dopo l’otto settembre 1943, giorno dell’armistizio, fui io a chiudere la caserma Piave di Sabaudia. E il giorno dopo, il nove, fui sempre io assieme ad altri a catturare una pattuglia di soldati tedeschi in perlustrazione per capire dove sarebbe avvenuto il prossimo sbarco degli alleati, fino a due giorni prima nemici dell’Italia. Il conflitto a fuoco si ebbe a Borgo Sabotino ma, una volta catturati i tedeschi, li dovemmo poi liberare visto che ormai il comando della zona era passato nelle loro mani. Già a ventanni fui decorato con due stellette e sono stato in prima linea sul fronte gotico nella Guerra di Liberazione 1943-1945. Ho terminato il servizio nel 1946 nel neonato 4° Ragguppamento Alpini di San Candido, comandato dal generale Galliano Scarpa. Finita la guerra sono rientrato a casa dopo la metà del 1946.

Dove stiamo andando? Tutto è cambiato rispetto a cento anni fa. Ho l’impressione che manchi un po’ tutto, il rispetto, la volontà di lavorare. Stiamo correndo senza sapere che fine faremo. Solo noi veneti, insieme a pochi altri, abbiamo di fatto creato l’Agro Pontino ed ora non possiamo che essere fieri ed orgogliosi del lavoro e dell’impresa compiuta.