IGNEO, CARRATTERE E CHIAMATA DEL DÁIMON: BUONI RISULTATI PER LA MOSTRA ORGANIZZATA A FONDI

Sta suscitando grande interesse e lusinghieri apprezzamenti per il tema trattato e l’impatto delle opere la Mostra IGNEO – Carattere e chiamata del dáimon allestita nel nuovo spazio espositivo BASEMENT PROJECT ROOM (sito in Via Tommaso d’Aquino, 26 a Fondi / tra la chiesa di Santa Maria e l’Auditorium San Domenico) ed inaugurata sabato 31 marzo in occasione del lancio al pubblico dello spazio stesso. Sono davvero molti infatti i visitatori dell’esposizione, a cura di Alessandro Di Gregorio in collaborazione con l’Associazione Culturale “Il Quadrato” e il Comune di Fondi – Assessorato alla Cultura, che si limita ad esplorare il tema del dáimon e pone in primo luogo i suoi affascinanti aspetti con nove dáimon a dialogare organicamente tra pittura, grafica, fotografia, installazione e video arte.

*Fiore - De Meo - Di Gregorio*

Simona Barbagallo sonda il complesso rapporto tra memoria e ricordo. Le immagini rappresentano il punto di incontro tra i due elementi, indispensabili per la costruzione dell’identità. Il video presentato ci pone davanti ad un quesito non del tutto trascurabile: cosa succede se siamo privi di tutte quelle immagini che permettono ad un ricordo di diventare memoria? Linda Carrara esplora la dimensione del buio e delle zone d’ombra, ignote e profonde: percorre un viaggio nella mente, negli anfratti più intricati ed inesplorati, nei luoghi in cui abbiamo avuto ancora accesso, nei territori che abbiamo ignorato o non abbiamo mai visto; l’uomo si sforza di vedere, d’inseguire ogni bisbiglio ed ogni minima sensazione, ma la conoscenza e la visione avviene in una luce a intermittenza, perché è solo dove l’uomo non ha capacità di vista che acquista visione. Alessandro Di Gregorio propone un progetto di amplificazione sensoriale: il calco in gesso, perturbante e destabilizzante, ferma il flusso del tempo, della storia e del tempo che si dà come storia e come racconto; perturbante è ciò che inquieta, che non è consueto, né familiare, che è straniero e come tale produce sensazioni di insicurezza, disagio ma che al tempo stesso è domestico e segreto. Come la nostra ombra o come i gemelli.


*Argentino - Di Gregorio - Fiore - De Meo*

Francesco Filippo avvia una serie di scatti tesi a riflettere sui rapporti tra disciplina architettonica ed immaginario collettivo: una linea di ricerca tesa ad interrogarsi sulla possibilità di creare condizioni ambientali e urbane che possano risultare soddisfacenti sia per l’attuale uomo in fase di transizione (transumano) sia per il futuro essere senziente frutto della mutazione tecnologica. Alex Lo Vetro ripercorre il viaggio agli inferi – inteso come inconscio – guidati da un Virgilio interiore, un angelo custode che riflette se stesso perfezionato ed ideale. I soggetti preferiti vibrano nel mito e nella natura e, citando simboli e sigilli esoterici, evocano un orientamento all’infinito, mentre il ricorso ai solventi celebra la dissoluzione dei contorni incapaci a mantenersi netti e la loro indefinitezza li rende irresistibili. Manuela Morgia sintetizza in un bianco e nero un mondo che emerge lentamente: l’immagine richiede un tempo di visione prolungato necessario affinchè si possa lacerare l’involucro del lirismo e affinchè l’incanto delle forme si dissolva. Prevale un senso del mistero e di poesia, colto nella dimensione più quotidiana dell’esistenza e dato nel modo più semplice e con la luce naturale.

Adriano Petrucci usa una tavolozza di colori caratterizzata da una violenta carica espressionista per cogliere soggetti deformati da sentimenti viscerali e disperati. I soggetti ritratti appaiono così rinchiusi nelle decorazioni di una stoffa che cela la passione che travolge, che smaschera figure che possiedono solidità e volume in un viaggio nella sensualità e nell’erotismo che sono provocatoriamente esibiti e deturpati dalla materia. Si fa interprete di una pittura figurativa che esprime in tutta la sua violenza anche lo squallore e la desolazione della condizione umana. Pietro Spirito propone personaggi in attesa di qualcosa o qualcuno che dovrà disvelarsi. La condizione umana rivelata in un luogo infinito e dalla luce abbagliante fa sì che la situazione sia appena accennata, si fa simbolo – per un attimo – del suo svolgimento, vissuta da pochissime figure e da frammenti di figure che si pongono in una narrazione “ellittica”, come se fossero i protagonisti residui ed essenziali di un avvenimento più profondo, più vasto, così distante da aver perso le sue precise definizioni e presentarne ormai solo tracce irriconoscibili, ma cariche e dense di vita. Giulio Zanet sviluppa racconti con spunti tratti dal quotidiano e vissuti giorno per giorno con intersezioni surreali, come se fossero degli ostacoli alla vista: gioca con impulsi visivi multipli il cui risultato è il totale disorientamento, voluto, e la perdita di un pensiero delineato e fisso.

E’ lo stesso curatore a delineare il significato dell’esposizione e del concetto di dáimon, sostenendo che «l’educazione ricevuta dai genitori e il contesto sociale e culturale in cui si è cresciuti giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo di un individuo, ma è riduttivo pensare che gli uomini siano una mera combinazione di cromosomi, precetti, regole impartite dai genitori e fattori ambientali. Deve esserci qualcosa di più, qualcosa di impalpabile, incomprensibile e tuttavia fondamentale. Questo “qualcosa” alcuni lo chiamano “genio”. Altri lo hanno chiamato “spirito”, “dáimon”, e anche “angelo custode”. Ebbene sì. Ognuno di noi – sostiene ancora Di Gregorio – riceve un demone (nell’accezione benigna del termine) come compagno segreto prima della nascita e ci starà accanto per tutta la vita al fine di aiutarci a portare a termine il destino che ci siamo scelti».